Alle ultime sorgenti del vero seltzer newyorchese

Se c’è un centro dell’alta pressione nel mondo, un luogo in cui la danza continua dei fluidi raggiunge il suo punto d’arresto, giacendo in attesa del selvaggio attimo della trasformazione, questo è certamente New York, nello stato federato di New York, contea municipale di New York. La città di gran lunga più popolosa del paese più influente, del continente più longilineo dell’interno Mondo Occidentale, per un margine di ben 5 milioni di persone, sotto cui scorrono i tubi dell’antico impianto di riscaldamento centralizzato dei grattacieli, colmi di un vapore talmente intenso che quando le usurate strutture subiscono un cedimento, pennacchi eruttano in maniera vulcanica fin sopra al tetto degli edifici, causando ingenti danni a cose, o persone che stavano momentaneamente passando di lì. Un luogo in cui i vagoni della metropolitana, anche in assenza degli addetti al compattamento umano del paese più estremo d’Asia, talvolta sono così pieni che non è nemmeno possibile chiedervi l’elemosina, suonarci la fisarmonica o pretendere di continuare la propria conversazione telefonica a tutto volume senza disturbare e irritare il prossimo, ancor più del nostra innata propensione a farlo. Dove il traffico del ponte di Brooklyn, secondo il teorema termodinamico di Bernoulli, nelle ore di punta diventa inviscido e perennemente giace, come un carico di pietre insensibili presso un affollato molo portuale. Cosa pensate che possa bere, dunque, un popolo soggetto a tali difficili prove, giorno dopo giorno della propria sovrappopolata esistenza? C’è una ragione se proprio l’America, intesa come federazione per antonomasia di un sistema di stati distinti, fu il principale paese ad implementare il teorema del proibizionismo, tentando di limitare gli scatti d’ira improvvisi e conseguentemente, ridurre gli episodi di violenza pubblici e privati. Fu certamente un bel giorno quando, stanche di veder prosperare la mala più di quanto fosse riuscita a fare fin dall’epoca delle tredici colonie, le autorità scelsero di passare a metodi più endemici ed un minor grado d’imposizioni da parte di chi dovrebbe tutelare le pubbliche “libertà”. Ma fu soltanto attorno agli anni ’50 dello scorso secolo, più o meno, che la gente imparò fortunatamente a bere l’alcol diluito con l’acqua, autoregolando l’assunzione di una simile sostanza inebriante, attraverso un particolare quanto funzionale espediente: l’apprezzamento innato verso le bollicine, un prodotto naturale della fermentazione di alcuni tipi di vino o birra, ma in quantità assai minore di quanto potesse venire indotto tramite l’applicazione di tecniche o metodologie particolari. Come quella praticata tutt’ora dall’ultima fabbrica di un fluido che avrebbe cambiato i gusti di un’intera generazione: il cosiddetto seltzer, ovvero nient’altro che l’acqua frizzante in bottiglia.
Ma non immaginatevi qualcosa di simile alla cosiddetta acqua minerale che possiamo acquistare oggi in qualsiasi supermercato. Chiamato in quei luoghi “lo champagne degli ebrei” per il rinomato apprezzamento dagli appartenenti a quel popolo venuti a vivere all’ombra dei grattacieli nei confronti di una simile bevanda, diventata negli anni un simbolo di Manhattan e Long Island esattamente come la pizza italiana, il cibo cinese o il curry delle culture d’India, un bicchiere ricolmo di vera frizzantezza newyorchese va bevuto a piccoli sorsi, pena l’arrivo una serie di singulti possenti, capaci di mandare in visibilio ogni papilla nascosta nella profondità della proprio vulnerabile gola. Per citare i ragazzi della fabbrica Gomber, l’ultima presente nel territorio della megalopoli, “Il buon seltzer dovrebbe far male” (Strano slogan, nevvero?) Ed è proprio questa famiglia yiddish immigrata da quattro generazioni a questa parte, attraverso una passione pluri-generazionale unita a un comodo sistema di approvvigionamento sul territorio della prototipica ed ormai quasi dimenticata porta accanto, che sta diventando negli ultimi anni il simbolo di un modo artigianale di fare le cose, più che mai desiderabile in questo mondo che sembra aver perso anche l’ultimo scampolo di autenticità. Sia chiaro, comunque: non è soltanto una questione di nostalgia. Perché come ama vantare nelle interviste il portavoce e membro più giovane dell’organizzazione, il vice-presidente poco più che trentenne con laurea in gestione aziendale Alex Gomberg, c’è frizzantezza, e poi c’è la vera frizzantezza. Quella che miracolosamente permane, anche dopo aver versato una parte dei contenuti, grazie a una particolare valvola a vite inventata nell’800. Componente fondamentale di molte delle bottiglie impiegate dalla sua compagnia, alcune delle quali hanno oltre un secolo d’età. Fatta eccezione per quelle moderne che un poco alla volta, in funzione dell’utilizzo assiduo, vanno a sostituire le vittime di cadute o rotture varie. “Ogni volta che se ne rompe una, piangiamo” afferma il giovane manager-cum-addetto alle consegne a domicilio. Ma loro resistono, imperterriti, convinti di fare ciò che da sempre amano più di ogni altra cosa…

In un vecchio video, a prendere la parola è il Gomberg senior, erede dell’attività da parte di padre e del nonno prima ancora di lui. Dal rapporto che traspare tra lui e i suoi dipendenti, incluso il figlio, si riesce a percepire quella spontaneità che tanti programmi della Tv verità statunitense si sforzano di mettere in scena davanti alle telecamere, con risultati, nel migliore dei casi, piuttosto deludenti.

Fece molta notizia nei quotidiani locali, durante l’estate del 2017, l’inaspettato eppure perfettamente comprensibile ritiro di Eli Miller, allora ottantaquattrenne, famoso addetto alla consegna a domicilio del seltzer newyorchese da un periodo di oltre mezzo secolo, con una clientela di estimatori per lo più privati nostalgici di un’epoca in cui tale bevanda era un simbolo irrinunciabile del benessere e la ricchezza in crescita della classe media, strettamente interconnessa a una serie di piacevoli ricordi e situazioni sociali difficili da sostituire. Questo perché si credeva che nessuno, a conti fatti, avrebbe potuto sostituirlo, se non che fu proprio il giovane Alex Gomberg, allora già vice-responsabile dell’unico fornitore rimasto, a rilevare il suo giro di consegne, scoprendo quante persone, in effetti, fossero pronte a disdire l’abbonamento non appena fosse andato in pensione il loro vecchio amico di famiglia, a cui tenevano in maniera particolare. Fu così, dunque, che all’affluente genio delle metodologie commerciali venne in mente di trasformare almeno in parte l’ancestrale business familiare: rivolgendo i propri sforzi pubblicitari e promozionali non più alle vecchie generazioni di Brooklyn e dintorni, bensì ai ristoranti, ai bar e agli altri establishment di ristoro, dove un certo tipo di clientela cercava, e cerca tutt’ora, un certo tipo di bevanda, sopratutto in uno dei poli nazionali e globali della cosiddetta corrente hipster, un desiderio da parte dei giovani di ritornare a tecnologie e tratti culturali ormai desueti, da loro percepiti come parte di un patrimonio insostituibile del proprio ambiente d’appartenenza. Immaginate voi quindi l’effetto che può avere una di queste vecchie bottiglie a sifone sul bancone, soffiate nella Polonia di inizio ‘900, ciascuna recante il marchio di fabbrica sul collo di vetro spesso e la leva metallica d’apertura da azionare con un gesto parecchio più antico dei telefoni cellulari. Per non parlare di quelle bolle, grosse, enormi, che andranno a ricoprire il fluido colorato del drink d’occasione, così drammaticamente diverse dalle quasi invisibili bollicine prodotte dalle moderne metodologie industriali. Del resto c’è un momento in cui la tecnologia di un tempo, se permette di ottenere un risultato difficilmente riproducibile, diventa il simbolo di un’eccellenza rara. Ma quando sei l’ultima fabbrica rimasta operativa in città si potrebbe anche dire più unica, che rara.
Un po’ come i cocktail cotti alla fiamma viva, vietati per ragioni di sicurezza in diversi stati. Sarà forse il senso di pericolo latente, questo brivido che percorre i margini delle sinapsi, ogni qualvolta si prende in mano un sifone ricolmo alla pressione di diverse atmosfere. Ben sapendo che potrebbe bastare farlo cadere accidentalmente, per causare un’esplosione con shrapnel di vetro lanciati in tutte le direzioni. C’è sempre stato un alone di mistero attorno all’anidride carbonica, consegnata formalmente al mondo dei bevitori nel 1767 dagli esperimenti del teologo e scienziato inglese Joseph Priestley, il quale aveva scoperto che questo gas, naturalmente prodotto dalla fermentazione della birra (nonché da qualsiasi altra attività di tipo chimico, microbico e animale) poteva far soffocare e uccidere facilmente un topo, temporaneamente sospeso sopra le vasche adibite a una simile mansione. Ma possibilmente, si spera, giammai lasciato cadere all’interno. Prestley scrisse quindi un intero trattato sulla fortuita invenzione di quella che lui chiamò “acqua modificata” ovvero ricolma di bollicine grazie all’interazione tra acido solforico e gesso, fatti venire a contatto nello stesso ambiente rigorosamente chiuso alle contaminazioni esterne. Fu in epoca vittoriana, quindi, che tale prassi diventò comune, tramite la produzione su larga scala dei gasogeni, bottiglie a clessidra con un sifone interno, attraverso cui dovevano risalire i gas prodotti dalle sostanze chimiche fino all’acqua da bere soprastante. Rigorosamente ricoperte da una rete in corda di contenimento, ipoteticamente utile a scongiurare il rischio d’esplosione improvvisa dell’intero dispositivo. Il termine selzer invece risale soltanto agli anni ’50 del ‘900, provenendo etimologicamente dalla città tedesca di Selters, nelle cui miniere era presente una sorgente naturalmente infusa di gas frizzante ed altri fortuiti contenuti bevibili, validi a trasformarla in un’antonomasia. Ma già a partire da allora il 99% dell’acqua frizzante di New York era prodotta artificialmente ed immediatamente imbottigliata a pressioni notevoli, tramite macchine del tutto simili a quelle ancora in uso presso la fabbrica della famiglia Gomberg.

Una bottiglia di vero seltzer newyorchese deve essere rigorosamente imbottigliata a testa in giù, pena l’impossibilità per l’anidride carbonica, più leggera dell’aria, di mescolarsi adeguatamente con l’acqua. Anche in questo, c’è una specifica metodologia rituale.

Nell’epoca dei computer super-intelligenti, un demiurgo al centro della fabbrica automatizzata spinge il grosso pulsante rosso situato proprio in mezzo al suo quadro di comando. Con un sibilo appena udibile, l’arzigogolata catena di montaggio inizia ad esercitare il privilegio del movimento, in alcune situazioni sinonimo della vita. Cento bottiglie di plastica piene d’acqua vengono istantaneamente capovolte, mentre altrettanti bracci pneumatici tolgono i tappi ed iniziano a soffiarci dentro con impeto sopraffino. Non c’è alcun errore, in una simile procedura, niente viene lasciato al caso. Ogni bottiglia di acqua “minerale” riceve la stessa identica frizzantezza, pronta a donare quel qualcosa in più ai drink, o ai pasti di una clientela che tanto, in ultima analisi, non riuscirebbe mai a capire realmente la differenza.
Provate una volta ad offrire a un americano il caffè prodotto da una Vera Macchina dei bar italiani. Avrete una reazione a metà tra lo stupore e il disgusto, mentre tenta di abituarsi, per la prima volta nella sua vita, al vero sapore di qualcosa che riteneva, erroneamente, di aver assaggiato un milione di volte. Ma dopo, per correttezza, andate a bere con lui qualcosa di altrettanto rappresentativo del suo popolo e la sua cultura: pura e semplice acqua, nient’altro che questo. Sono pronto a scommettere che non riuscirete mai, nonostante l’impegno, a berla tutta in un singolo fiato.

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