Vecchi film su dischi di vinile: gli antenati perduti del DVD

Così tante cose, nel mondo della tecnologia, vengono date per scontate! Il segnale digitale è sempre meglio dell’analogico. Il processore calcola, la scheda video elabora. Le tastiere meccaniche risultano più precise. Ed il nastro magnetico è una soluzione inerentemente inferiore a qualsivoglia tipo di disco video, letteralmente cancellato dall’esistenza nel momento stesso in cui qualche cervellone ha scoperto il modo di spalmare un video, come marmellata della prima colazione, permettendo a una lanterna magica di estrarlo e proiettarlo sulle nostre Tv. Ciò che in molti dimenticano, o più semplicemente non si sono mai davvero preoccupati di sapere, è che a partire dal 1978 videocassetta VHS e LaserDisc, il primo disco ottico ad “ampia” diffusione di mercato (si fa per dire) hanno coesistito per anni, semplicemente in forza del fatto che le prime potevano essere impiegate per registrare i programmi televisivi, mentre i secondi presentavano un’immagine più nitida ed un costo di masterizzazione minore per i singoli film. Per non parlare della maniera in cui poter dare inizio allo spettacolo da qualsivoglia punto della registrazione, senza tempi di riavvolgimento di sorta, avrebbe dato adito a un impiego nel campo dei videogiochi, con gli storici cartoni animati e film interattivi dei cosiddetti lasergame (Dragon’s Lair, Space Ace… Tanto per citare due capolavori dell’animatore disneyano Don Bluth, entrambi del 1983).
Ma veniamo, adesso, ad una piega ancor più strana dello spaziotempo dei formati audio-video, un recesso letteralmente inesplorato da tutti coloro che potrebbero provare a definirsi dei millennials, la cui età è semplicemente troppo giovane per aver sperimentato in prima persona i tentativi, da parte di aziende contrapposte, di acquisire il predominio nell’arduo campo dell’entertainment casalingo. Quell’epoca, durata complessivamente un periodo di soli tre anni, in cui più di qualcuno era fermamente convinto che i giradischi dovessero fare un tardivo rientro nei salotti di tutto il mondo, per venire questa volta collegati non [solo] all’impianto audio, bensì direttamente alla Tv. Luce fioca del tubo catodico; un leggero sfarfallio del fermo immagine; il rumore sibilante di un piccolo motore, intento a manovrare la puntina lungo i segni concentrici di quel supporto, per certi versi anacronistico, eppur così stranamente tranquillizzante, nella sua ancestrale familiarità. O almeno ciò pensava la Radio Corporation of America, azienda un tempo potentissima che già nel 1964, attraverso una serie di esperimenti, aveva dimostrato la possibilità di immagazzinare un video all’interno del lungo solco spiraleggiante di una sorta di 33 giri, a patto che per leggerlo si usasse una puntina speciale, basata non sul movimento verticale all’interno dello stesso, bensì un lieve campo elettrico fatto passare direttamente attraverso il “corpo” del film. Ma considerazioni Frankenstein-iane a parte, ciò che RCA tentò di fare, attraverso una campagna pubblicitaria selvaggia e spese ingenti nel campo della ricerca e sviluppo, era irrompere su un segmento di mercato meno estremo del LaserDisc (i lettori costavano circa 400 dollari, contro gli oltre 900 del formato rivale) e film dal costo inferiore rispetto al VHS, considerata l’assenza dell’inerente complessità strutturale di una videocassetta. I vantaggi, tuttavia, finivano qui: il CED (Capacitance Electronic Disc) era un formato a bassa definizione, i cui dischi costruiti in vinile ricoperto di nichel erano talmente delicati, e sensibili alla polvere, che dovevano essere custoditi all’interno di un’apposita custodia, da cui soltanto il lettore avrebbe dovuto/potuto estrarli. Nonostante un simile accorgimento, poi, il semplice fatto di farvi scorrere sopra la puntina tendeva a degradarli, per una quantità di utilizzi possibili che la casa produttrice stimava sui 500 circa. Ma la realtà è che la qualità delle immagini tendeva a degradarsi già molto prima di quel momento. In breve tempo quindi, inesorabilmente, il formato cessò di essere rilevante, trascinando a picco la Radio Company e costringendola a svendere un corposo surplus di lettori invenduti. Partito per l’ultimo viaggio come i grandi dirigibili ante-guerra, il disco video su vinile avrebbe dovuto quindi sparire completamente dal corso della storia. Se non che, in Giappone, qualcuno restò profondamente colpito dai meriti di una simile idea verso l’anno 1978, portando all’immissione sul mercato di un nuovo prodotto entro il 1983. E quel qualcuno era la Nippon Bikutā Kabushiki-gaisha, generalmente abbreviata con un trio di lettere che dovrebbe suonarvi più familiare: JVC.

La sola sensazione soddisfacente del disco espulso all’interno della custodia, da parte di una macchina ingegnerizzata fino al decimo di millimetro, giustifica nella mente dei collezionisti l’esperienza di un film dalla qualità inferiore rispetto alle alternative odierne.

Esiste questo modo di pensare al progresso, nel paese del Sol Levante, per cui la creazione di un qualcosa di nuovo non debba sempre, oppure necessariamente sovrascrivere quello che c’era prima. Così avvenne che l’eclettico formato VHD della Nippon Bikutā Kabushiki non solo riuscì a ricavarsi un segmento solido dal punto di vista commerciale, contrariamente a quanto avvenuto negli Stati Uniti, ma anche uno spazio nel cuore degli appassionati, diventando una sorta di dispositivo di culto, tutt’ora mantenuto in alta considerazione. Per approcciarsi al suo funzionamento, sarà quindi in primo luogo opportuno definire il senso dell’acronimo: HD, contrariamente a quanto potrebbero pensare i nostri contemporanei, non stava in questo caso per high definition bensì high density, un riferimento alla maniera in cui i dati erano stati immagazzinati sul disco con una granulometria di portata inferiore, aumentandone in maniera sensibile la capienza per centimetro quadrato. In forza di questo, pur avendo mantenuto la durata di 60 minuti per lato dei CED, questi dischi avevano un diametro di 5 centimetri inferiore, dando la sensazione di tenere in mano una rivista, piuttosto che un vecchio LP. La natura stessa della tecnologia di fondo, inoltre, era stata sensibilmente migliorata: pur essendo altrettanto vulnerabili alla polvere, e quindi anch’essi incapsulati nell’irrinunciabile custodia di plastica, i vinili giapponesi avevano un vantaggio molto significativo nell’assenza del classico solco, per cui la puntina poteva leggere il campo elettrico contenente audio e immagini semplicemente scorrendo tra una serie di cerchi concentrici. In tale maniera, l’usura del disco era decisamente inferiore, e pur non permettendo un reimpiego virtualmente eterno come quello dei LaserDisc (in cui nessun contatto con la testina ottica risultava necessario) il numero di visualizzazioni possibili per un film restava di gran lunga superiore a quelle probabili all’interno di una situazione casalinga. Detto questo, il formato rimaneva totalmente impraticabile per il mercato del noleggio; comunque meno rilevante in Giappone piuttosto che nell’Occidente coévo.
Esportato verso gli Stati Uniti, il sistema ricevette una tiepida accoglienza soltanto lievemente migliore di quella riservata al CED, data l’ormai larga diffusione dei dischi ottici, nonostante l’elevato costo di acquisizione della tecnologia. Ma ci fu un campo, tipicamente giapponese, in cui il VHD avrebbe trovato diffusione pressoché totale: quello delle macchine per il karaoke. In un’associazione imprevista destinata a durare molto più dei soli tre anni per cui i lettori casalinghi continuarono a venire prodotti in serie, la tipica macchina per cantare presente in molti bar e luoghi di ritrovo giovanili fu fatta funzionare grazie a questa strana tecnologia, chiaramente venuta dal passato eppure, cionondimeno, stranamente valida e funzionale. A testimonianza ulteriore del successo nazionale di questo tipo di dischi, va citata anche la creazione del formato VHDpc, per l’improbabile immagazzinamento di dati digitali e programmi informatici, come alcuni videogiochi ad alti contenuti multimediali del popolare computer MSX, che potremmo anche definire il Commodore 64 giapponese.

Parte del fascino dei dischi video ad ampio diametro è anche dato dalle etichette e le copertine, spesso realizzate da grafici professionisti sulla base dei materiali promozionali dei vari film. L’usura che deriva dall’utilizzo ha fatto crescere nel tempo il valore dei titoli ancora funzionanti, ferocemente ricercati da un particolare tipo di pubblico, non soltanto giapponese.

È in un certo senso liberatorio ed altamente pratico, il fatto che oggi viviamo in un’epoca in cui nessun supporto esclusivamente concepito per il video sembra più assolvere ad alcun tipo effettivo di necessità. L’epoca in cui una memory card grande come un’unghia può contenere 10, 15 lungometraggi o si può facilmente fare a meno addirittura di questo, per affidarsi alla fulminea velocità di un collegamento a banda larga o 4g. Tanto, fondamentalmente, a chi interessa guardare ancora e ancora gli stessi contenuti, come un bambino affascinato dalle immagini in movimento perpetuo e ripetitivo? Ecco una linea di pensiero diffusa! Che ci ha privato, inevitabilmente, del gusto implicito del possesso. Il piacere di mettere assieme una videoteca da guardare e riguardare, associandogli ricordi situazionali alla maniera i cui si fa con un buon disco o i romanzi dei nostri autori preferiti.
Il consumismo all’ennesima potenza. Essere limitati non più dalla spesa d’acquisto, bensì dal tempo libero a disposizione… E chissà che molto presto, non iniziamo a guardare i film a velocità raddoppiata. Comprimendo il trascorrere dei minuti, di giornate troppo brevi per contenere il desiderio di conoscere ed acquisire, distruggere, fagocitare altri film.

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