Acrobati robotici dalla fucina di Mickey Mouse

Ve li ricordate i pacifici, plausibili cartoni animati di una volta? Pippo, Topolino e Paperino che affrontavano problemi di una vita, per così dire, normale. Daffy il papero alle prese col problema dei cacciatori stagionali. Tom & Jerry con i loro piani articolati per sconfiggere il rivale, oppure dare adito a pulsioni facilmente comprensibili: fame, amore, desiderio di dormire. Persino Wily E. Coyote, coi suoi diabolici marchingegni, guidato da leggi della fisica a noi note, e un senso della logica perverso ma giustificato. C’erano un tempo aziende, con il compito di disegnare tali forme d’intrattenimento, le cui gesta erano guidate da un gusto ragionevole, condivisibile o persino sensato. Quindi col trascorrere degli anni, qualche cosa è cambiato: forse è stato il metodo importato dal Giappone, quel modo di divertirsi e far divertire con personaggi che s’ispirano alla gestualità e i combattimenti del teatro popolare kabuki. Oppure l’imporsi del media digitale interattivo, in cui l’idraulico italoamericano che salta sulle tartarughe non è altro che la gateway drug verso un mondo di assassini, membri delle forse speciali, porcospini iper-veloci e sopravvissuti dell’apocalisse zombie con mazza chiodata. Fatto sta che addirittura Disney, il marchio del divertimento tradizionale per eccellenza, nelle ultime due decadi si è ritrovata a diversificare l’offerta, con gli acquisti multimiliardari di Pixar (2006) Marvel (2009) e Lucasfilm (2012). Surprise, people! La ditta dei tranquilli animali parlanti e gli adattamenti animati delle fiabe, trasformata in narratrice di guerre cosmiche o conflitti universali, confronti insanguinati per dimostrare con drammatica enfasi chi siano i buoni, e chi i cattivi tra un ipertrofico cast di personaggi in qualche maniera “più” che umani. Situazione in grado di condurre, trasversalmente, a nuove sfide nell’ambito del mondo materiale. Già perché, sebbene molti tendano a dimenticarlo, nel DNA stesso della Disney c’è un qualcosa di distinto e atipico, l’elemento stesso che non può essere trovato in [quasi] nessuno dei suoi concorrenti per il tempo libero delle persone, fatta eccezione per gli Universal Studios e in misura minore, ciò che resta dell’antica Cinecittà romana: la costruzione di un luogo dei sogni, presso cui incontrare ciò che un tempo era soltanto fatto delle nebbie evanescenti della fantasia. Il che faceva capo, nella tentacolare multinazionale dell’uomo-topo con sede a Glendale, in primo luogo in un gruppo di uomini e donne selezionati personalmente dallo stesso fondatore Walt, che erano al tempo stesso ferrovieri, architetti, artisti e progettisti d’attrazioni meccanizzate. Ovvero in altri termini, la WED Enterprises (dal secondo nome del grande capo, Elias) squadra incaricata di assisterlo nella creazione del primo parco a tema Disney World di Orlando, Florida USA.
Passano gli anni, mutano le priorità. Così che portato un simile progetto a compimento, la divisione venne mantenuta attiva, con il compito iniziale di continuare a mantenerlo interessante, potenziando e cambiando quanto veniva offerto al pubblico pagante dei bambini più o meno letterali interessati a sperimentarlo. Finché nel 1986, sull’onda di una riorganizzazione profonda della struttura aziendale, la divisione incorporata dal remoto 1956 non si trova il nome cambiato in Imagineering, rispecchiando il nuovo metodo e sistema mansionario riveduto e corretto. Per la prima volta, eliminato il limitatore metaforico, questo ensemble simile a un think-tank vede applicata in pieno quella teoria del management che oggi viene attribuita principalmente a grandi compagnie del mondo tecnologico, come Google, Apple o Valve: il cosiddetto soffitto blu, ovvero una certa quantità di ore libere, all’interno della giornata lavorativa, in cui gli impiegati più creativi possano perseguire i loro progetti personali e sogni della pipa più vertiginosi, a patto che il risultato resti purissimo appannaggio dell’organizzazione. Prassi che ha portato svariate volte a veri e propri studi accademici, capaci di proporre sentieri evolutivi interessanti nel campo degli effetti speciali, del calcolo informatico e perché no, nel campo avveniristico della robotica applicata. Perché noi tutti davvero fin troppo bene, l’effetto che può fare un pupazzo parlante immerso tra le scenografie di un film a noi noto, nel ricreare l’atmosfera conduttiva ala più totale coinvolgimento di terzi. Eppure, come dicevamo, i personaggi dell’immaginario non sono più quelli di una volta: ma supereroi volanti, guerrieri istruiti nella Forza, soldati, pirati, spadaccini… E c’è sempre stato un limite, a quello che si può mostrare in maniera predeterminata, grazie a un meccanismo che dovrà ripetere le stesse gesta 100, oppure 1.000 volte nel corso di una singola giornata. Fino ad ora. Stuntronics è l’ultima proposta al mondo da parte dei suddetti scienziati pazzi, una risposta alla domanda mai posta formalmente di quanto, e come, esseri artificiali possano svolgere il mestiere difficile e pericoloso dello stuntman, trasferendolo dal mondo cinematografico all’ambiente dei parchi giochi. Tanto per cominciare; perché va da se che quando finalmente sarà stata superata la trappola della uncanny valley (la somiglianza troppo approssimativa alla realtà) ben pochi mestieri resteranno puro e semplice appannaggio dell’umanità biologica in quanto tale…

La marcia del bruco geometride è prevedibile e ripetitiva: corto, lungo, corto, lungo, mentre il suolo scorre sotto i minuscoli piedini del bruco. Ma chi ha detto che persino un lepidottero, debba necessariamente rinunciare a una carriera nel fantastico mondo degli acrobati da circo?

C’è un singolo video, dedicato all’idea, pubblicato dal portale TechCrunch su esclusiva concessione della Imagineering, benché esso sia la risultanza di un percorso iniziato almeno lo scorso anno, con quello che l’articolo di accompagnamento descrive come una sorta di “mattone rotolante”. Nome in codice: BRICK (Binary Robotic Inertially Controlled bricK) e forma poco appariscente di un normale parallelepipedo, all’interno del quale un sistema giroscopico e misuratori laser di distanza si occupava di determinare il senso e la velocità di rotazione, una volta che l’oggetto era stato scagliato dall’equivalente scientifico di una catapulta. Frutto prettamente newtoniano, benché non si tratti di una mela, dell’impegno del team sotto la guida di Tony Dohi, a capo della divisione ricerca e sviluppo interna alla Imagineer e Morgan Pope, ricercatore associato della compagnia. O almeno questo è possibile desumere dalle poche informazioni rivelate in merito, che conducono tuttavia a un qualcosa di maggiormente noto al pubblico. Sto parlando di Stickman, approssimativo robot flessibile con articolazione a stantuffo, come una sorta di bruco metallizzato angolare, capace di  balzare da un trapezio estendendo o ritraendo al sua singola “gamba” a tempo, per ottenere una rotazione degna dei migliori artisti da circo. Creazione rivelata al pubblico verso la fine del maggio scorso, con tanto di documento approfondito sul funzionamento, firmato dallo stesso Pope assieme a un certo numero di colleghi altrettanto liberi di definire il senso delle proprie giornate. E il risultato, senza usare mezzi termini, si vede eccome: questo è un dispositivo che, pur non avendo alcunché di umano, riesce a muoversi in maniera stranamente convincente, veicolando le prerogative del più rudimentale BRICK verso la realtà finale degli Stuntronics, dimostrati nello spettacolare ultimo video di TechCrunch.
Tecnicamente parlando, il concetto di simili automi non è particolarmente rivoluzionario. Essi non posseggono un’intelligenza artificiale propria, né sofisticate routine di comando a distanza. Eseguendo piuttosto, in maniera predeterminata, una serie di gesti sempre uguali guidati da precisi calcoli numerici. Che il “caso” vuole, tuttavia, siano mirate all’esecuzione di un’acrobazia complessa e potenzialmente pericolosa per le loro controparti umane. Ma non è forse proprio questo, ciò che dovrebbe fare uno stuntman, particolarmente se interessato a sopravvivere per eseguire nuovamente il suo numero, ancora e ancora? Nel campo di un simile approccio all’intrattenimento, l’attenzione ai dettagli è tutto e come noi sappiamo, la precisione delle macchine non può che essere definita come ineccepibile, perché governata da metodologie immanenti. Così che gli eredi del primo stickman, creature dotate di gambe, braccia e una testa (già, talvolta è necessaria anche quella) diventano una ragionevole approssimazione di creature di carne e sangue, mentre eseguono, per il momento, semplici salti dal trapezio nella rete di sicurezza, un qualcosa che potrebbe ritovarsi sostituito, in futuro, da voli pindarici verso vertiginosi atterraggi capaci di frantumare le articolazioni umane, tanto per ricordarci la posizione degli androidi nello schema generale delle cose, probabile scalino ulteriore nell’evoluzione delle forme di vita terrestri. A patto che prevalga la visione denunciata da opere creative come la serie Tv Westworld con Anthony Hopkins, in cui il parco giochi diventa una metafora per la stessa terra di Midgard, mera simulazione ad opera di esseri superiori inusitati, coloro che finiscono per somigliare pericolosamente agli Dei. Ma perché ciò avvenga, non dovrebbe forse prendere piede l’unione tra due campi diversi dello scibile, il potenziamento dei metodi motori ed il pensiero libero delle reti neurali?

Tra le altre innovazioni recenti dei parchi giochi disneyani questi animatronics prelevati dalla serie Guardians of the Galaxy, animati da una serie di routine d’intelligenza artificiale e diversi stati d’umore. In più di un senso, diretti discendenti di Furby, l’animaletto parlante della fine degli anni ’90.

Difficile non pensarci, osservando l’emulo di Iron Man che balza nel cielo della California, assumendo una posa plastica degna del miglior atleta olimpico mai nato. Ed ancor più difficile evitare simili connessioni sull’onda del pensiero internettiano, guidato da precise subroutine memetiche capaci di sfidare quelle dei più semplici personaggi degli antichi cartoons. Così come Gatto Silvestro corre dietro al canarino, il popolo dei commentatori web non può esimersi dall’usuale connessione dei nuovi stuntronics col timore latente, ritornato in auge grazie alle dichiarazioni di alcune personalità del mondo tecnologico (su tutti, Bill Gates ed Elon Musk) in merito alla presunta imminenza della creazione di una super-intelligenza artificiale, capace di superare l’esigenza di dipendere da noi, diventando potenzialmente una nostra implacabile nemica. Ottica una volta entrati nella quale, agenti antropomorfi dotati di un’agilità sovrumana non possono che apparire decisamente inquietanti, per non dire conduttivi del più fosco tra tutti i presagi. Una visione al confronto della quale, la serie dei film di Terminator corrisponderebbe grosso modo alla seconda trilogia di Guerre Stellari.
Poco male, direbbe qualcuno. Per allora il mondo sarà già andato incontro, nell’ordine: alla guerra termonucleare globale, alla notte dei morti viventi, allo scioglimento delle calotte artiche e l’impatto di almeno un paio di meteoriti. Potremo allora mettere da parte le nostre mazze da baseball, sostituite con più pratiche spade laser. Per vivere, finalmente, il tragico e violento mondo che ormai ha sovrascritto l’innocenza di quel topo ed il suo amico, l’iracondo papero parlante.

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