L’acutezza di una lama forgiata con la carta stagnola

Quando si osserva uno YouTuber che realizza un video dimostrativo pratico in cucina, generalmente, ci si aspetta che il suddetto materiale si riferisca in qualche maniera alla sfera della gastronomia, o conduca comunque a un qualcosa di commestibile in caso di estrema necessità. E in effetti Kiwami Japan, misterioso autore che probabilmente diffonde il frutto del proprio agire anche sul portale del suo paese Nico Nico Douga, ha in precedenza lavorato con la pasta, la cioccolata nonché il particolare pesce secco noto come “cibo più duro del mondo”, katsuobushi o bonito di tonnetto striato. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, tuttavia, piuttosto che puntare a una varietà di ricette, il suo obiettivo è sempre stato il medesimo, ovvero la creazione di un qualcosa di periferico, purché importante ai fini della buona tavola: un coltello di ottima qualità. È del resto particolarmente sentito, nella cultura del Sol Levante, il ruolo preminente riservato al più nobile degli strumenti per preparare il cibo, spesso tramandato di genitore in figlio e così via talmente risulta essere elevata la sua qualità costruttiva, ed eccellente il metallo di cui è stato costruito. Ma le usanze a tavola definiscono le aspettative delle persone. E nella maggior parte d’Asia, di contro non è tipico che a tavola si disponga di null’altro che un paio di bacchette, una ciotola ed al massimo, in determinati casi, un cucchiaio. Ciò determina, in determinati casi, l’esistenza di un problema: che dovrebbe fare la persona per cui, momentaneamente, è impossibile acquistare un coltello presso la bottega del fabbricante della meraviglia in hagane, l’acciaio tradizionale ripiegato su se stesso come la pasta sfoglia dei samurai? Perché in definitiva, tutto quanto può tagliare un pomodoro. Basta volerlo con sufficiente convinzione, disponendo degli strumenti giusti per realizzare l’idea.
Nell’ultimo video dell’eclettico autore, pubblicato giusto ieri, tuttavia, è palese che egli riesca a realizzare il suo obiettivo migliore. Non più perseguire la creazione di un qualcosa di utile le prossime due o tre volte, prima di finirgli nello stomaco tra la diffusa ilarità generale, bensì un effettivo attrezzo che riesce a convincere quanto meno lo sguardo, riuscendo a svolgere adeguatamente lo scopo che lasciava intendere la sua forma. L’idea è del resto semplice, ma geniale, e gli permette di sfruttare una sostanza appartenente alla categoria ideale dei metalli. Quello proveniente, per l’appunto, da un rotolo di carta di alluminio, generalmente usata per conservare il cibo o cuocerlo in maniera più netta ed uniforme. Fin troppo spesso ci dimentichiamo dei complicati processi industriali che si trovano alla base degli oggetti di uso comune, e con esse delle straordinarie doti di un metallo tanto duttile, un tempo straodinariamente difficile da estrarre ed isolare. Finché il chimico francese Henri Étienne Sainte-Claire Deville, inventando la riduzione diretta tramite processo elettrolitico, non lo rese tanto comune da permetterne l’impiego in aeronautica, prodotti di consumo e addirittura, ogni volta se ne percepisca la necessità, applicazioni usa e getta in cucina. Ma forse neppure lui aveva mai pensato che si potesse arrivare a questo… Senza lasciare spazio neanche ad una breve introduzione, il creativo misterioso inizia subito il suo primo tentativo, srotolando il proprio rotolo e provando, se possibile, a plasmarlo inizialmente con le mani. Osservando il risultato non propriamente ideale, ben presto si rende conto che esiste un metodo migliore. Allora prende un secondo rotolo, e con il manico di un martello espelle il tubo di cartone all’interno. Quindi dispone l’oggetto sopra una  morsa-incudine, ed inizia ad appiattirlo con una serie di colpi attentamente mirati. A fine di ammorbidire e plasmare al meglio la sua creazione, a metà dell’opera la pone brevemente sui fornelli, facendo affidamento sulla temperatura di fusione piuttosto bassa del materiale in questione, prima di passare finalmente al momento cruciale del taglio della billetta (lingotto da forgia).

Ogni coltello di Kiwami (il cui nome significa “definitivo”) rappresenta la realizzazione di un’idea diversa. I più attenti noteranno, tuttavia, come la forma effettiva da lui realizzata sia quasi sempre esattamente la stessa. Come se il coltello perfetto non potesse prescindere dall’uniformità esteriore dei fattori costituenti…

Ed è qui che il nostro eroe inizia a dimostrare l’eccezionale portata della sua sapienza e tecnica artigiana. Perché per sua scelta, o possibile necessità dovuta alla quiete dell’appartamento in cui vive, non si approccia al compito che ha davanti mediante l’impiego di attrezzi elettrici, come trapani o seghe da taglio circolari. Bensì una scatola di attrezzi completamente manuali, per mettere a frutto i quali dovrà spendere una considerevole dose d’olio di gomito, consumando, ragionevolmente, qualche abbondante centinaio di preziose calorie. A partire dal seghetto diamantato che, una volta tracciata la forma sull’alluminio a partire da un comune coltello da chef di marca Daiso, dal prezzo probabile di pochi dollari e una storia industriale decisamente meno articolata, usa per tirare fuori la forma dal rettangolo precedentemente costituito. A questo punto, di nuovo, viene il turno dei fornelli ma stavolta per uno scopo decisamente diverso: permettere ai numerosi strati della carta stagnola di saldarsi a se stessa per quanto possibile, trasformandosi in un solido tutt’uno. Ed è qui che i più critici hanno avuto modo di osservare un potenziale punto debole del prodotto finito. Come molti di voi sapranno, in effetti, la comune carta di alluminio per uso in cucina ha due lati diversi tra loro, uno lucido e l’altro opaco (o in altri termini, ruvido e liscio). I quali, trovandosi sempre a contatto l’uno con l’altro, sembrano fornire al futuro coltello una saldatura ideale; in ogni punto, tranne il centro esatto, dove la parte ruvida (o liscia) si sarà trovata a contatto con se stessa. Creando una lunga fessura che, momentaneamente, sembrerebbe rovinare l’estetica del prodotto finale. Se non che Kiwami, a quel punto, passa ad un’altra fase saliente della sua produzione: l’affilatura. Impiegando una serie di costosi blocchi costruiti a tal fine, seguiti dalle pietre ad acqua della tradizione nipponica per le finalità più estreme, appare finalmente soddisfatto e passa alla creazione del manico. Due fori vengono ricavati nell’alluminio con il più improbabile ed inefficiente dei trapani manuali (sembra un cavatappi) prima di inserirvi altrettante viti usate per tenere in posizione i parallelepipedi di legno, che riceveranno il trattamento della carta vetrata per garantire un’ottimale maneggevolezza finale. Lo stesso tiraggio reciproco della filettatura interna, inoltre, garantirà una maniera per contrastare l’allargarsi della crepa centrale. Qualche piccola rifinitura finale, un’ultima lucidatura, ed il coltello sarà terminato. Perfetto e splendente, come il modello sulla base del quale era stato progettato, utile in un breve test per affrontare il taglio di una singola zucchina. Si capisce comunque, ad ogni modo, che potrebbe affettarne 100 o 1.000 senza andare incontro al minimo problema. Magari, non molte più di così…
Considerazioni sull’effettiva durevolezza a parte, ad ogni modo, è palese che siamo di fronte ad uno dei migliori coltello realizzato fin’ora da questo misterioso autore giapponese. Laddove il suo precedente successo mediatico, costruito con spaghetti tritati, messi sottovuoto ed infine cotti a puntino, non era neppure sopravvissuto al primo pasto della giornata, finendo per essere tagliato e consumato assieme al formaggio con una “forchetta” improvvisata, ovvero tre bacchette legate assieme. Un ottimo modo, verrebbe anche da pensare, di far sparire l’eventuale arma del delitto, come avveniva con la pesante coscia d’agnello usata nel momento culmine di un vecchio dramma per la tv.

Ma forse l’arma più terribile della sua carriera, ad oggi, risulta essere questa: il coltello realizzato col durissimo bonito di tonnetto del Pacifico. Un cibo in grado d’intaccare i denti di una tigre preistorica, a meno di essere stato precedentemente ed attentamente tagliato a scaglie. Generazioni di shogun avrebbero fatto carte false, per poter disporre di una simile katana portatrice di morte!

Tagliare il cibo con il cibo che taglia, chiamare il coltello con l’intenzione che parla, trovare l’equilibrio che permette la trasformazione alchemica dei singoli elementi costituenti. È forse questa, una forma di soddisfazione filosofica interiore? Perché costui occupa le sue giornate nella pratica di un hobby così apparentemente faceto, pur avendo a disposizione il non-plus-ultra delle attrezzature del metallurgo domestico, che gli potrebbero permettere di fare ben altro? La risposta, come spesso capita online, è da ricercarsi nel volere del pubblico. Che di volta in volta suggerisce nei commenti l’improbabile materiale da utilizzare nella puntata seguente, partecipando quindi della sua soddisfazione artigiana e finanziandolo, per quanto possibile, con i preziosi click della pubblicità di YouTube. È una strana epoca della televisione partecipativa, questa, in cui lo spettatore può davvero, per la prima volta, influenzare l’opera del proprio beniamino di turno. Una situazione non propriamente ideale, nel caso si stia cercando una fonte d’informazioni. Ma estremamente proficua, per quanto concerne la creatività e l’intrattenimento.
Come in quel valore estetico primario per il vissuto dei giapponesi, dunque, il valore ed il merito di quanto stiamo osservando non va trovato nella risultanza ultima del suo lavoro. Bensì nel processo stesso, strada per accedere alla soddisfazione durevole nel compimento dei propri gesti. Difficile, a quel punto, sarebbe negare l’importanza di un coltello di pasta o carta stagnola. Anche se quello di pesce, va pur detto, dev’essere tutt’altro che profumato.

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