L’albero coperto di caviale brasiliano

La luce dell’alba illuminava di traverso le acque del fiume Arinos, affluente di seconda generazione a partire dal grande corso del Rio delle Amazzoni. Se un membro dei vicini popoli Tupinambà o Aimoré, di cui ancora permanevano alcune comunità isolate nel profondo di questa foresta ragionevolmente incontaminata, avesse deciso di sporgersi oltre  gli argini lievemente scoscesi, avrebbe intravisto attraverso il fluido  trasparente la più fantastica varietà di pesci, larve d’insetti e almeno una dozzina di riconoscibili dorsi delle tartarughe dalle orecchie vermiglie, Trachemys scripta, intente, ad un ritmo per loro frenetico, nella ricerca di prede o possibili fonti di cibo. Diciamo di trovarci, in effetti, sul finire dell’autunno, quando persino a queste latitudini tropicali, la temperatura iniziava a calare, e le giornate a farsi progressivamente più brevi. Era il momento, volendo esser chiari, in cui la cognizione del rettile iniziava ad avvisarlo di accumulare una riserva di grassi, sufficiente ad iniziare un lungo periodo di dormiveglia. Non un vero e proprio letargo, sconosciuto per gli animali originari di climi tanto caldi, ma il cosiddetto processo di brumazione, una riduzione dei processi metabolici con attività estremamente ridotta per molti mesi. Comunque abbastanza significativo, da un punto di vista dei ritmi dell’organismo, da poter costare la vita agli esemplari più deboli e privi di nutrizione. Il nostro ipotetico indio, dunque, avrebbe potuto seguire il susseguirsi di gusci scuri, fino al punto in cui essi, tra l’erba di media altezza, sembravano disegnare un percorso a guisa di processione. Come una lenta fila di formiche, verso l’unico possibile obiettivo del loro desiderio: quello che in lingua Tupi viene correntemente definito il jabuti o jaboticaba (a seconda della trascrizione) ovvero letteralmente “luogo delle tartarughe” che ai nostri occhi inesperti, si sarebbe presentato essenzialmente a guisa di un albero, dell’altezza non indifferente di una quindicina di metri. Il più singolare, e magnifico, tra tutti gli arbusti del territorio.
La prima reazione di chi scruta sul campo per la prima volta il bizzarro tronco di questa pianta, purché si tratti di un esemplare adulto e in epoca successiva alla fioritura, è di evidente sorpresa, seguita talvolta da un comprensibile senso d’inquietudine. Questo perché l’arbusto in questione, il cui nome scientifico è Plinia cauliflora, può apparire letteralmente ricoperto da quelle che sembrano a tutti gli effetti a delle uova di una qualche misteriosa creatura, attaccate come quelle dei pesci sulla ruvida superficie di scogli sottomarini. I suoi rami, carichi di fronde verde intenso o color salmone, non hanno in effetti l’accompagnamento di alcun tipo di frutto né fiore. Parti che si trovano rappresentante, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, lungo lo spazio verticale del tronco stesso, attraverso la scorza coriacea di una corteccia strappata in più punti. Globi, su globi, su globi, di un nero lucido che cattura l’anima, e l’assorbe attraverso il ritmo ed il canto del desiderio. Un odore sottile ma percepibile a grandi distanze, carico di un sentore zuccherino, tale da risultare irresistibile per il naso attento delle tartarughe vermiglie ed altre… Più singolari specie. Tornando così al nostro accompagnatore in questo fantastico mondo di misteri, egli avrebbe scoperto il raduno delle compatte creature, intente a consumare il mare di bacche mature già cadute a terra. Tra tutte loro, quindi, sarebbe comparsa la forma di un essere notevolmente avvantaggiato: la càgado de serra, o tartaruga dal collo serpentino. La quale, protendendosi alla massima estensione permessa dalla sua flessibile spina dorsale, piuttosto che afferrare l’oggetto del desiderio dal suolo erboso, riusciva a farlo direttamente dal tronco, acquisendo per se le primizie migliori. Che fosse proprio questo, il segno cercato dall’indio? Sorridendo tra se e se, l’uomo estrae dalla sacca il suo flauto tradizionale, intagliato nella forma del pesce apapà, col quale emette un fischio attentamente modulato, il cui significato era “Venite, accorruomini. L’yvapurũ è pronto. L’ora del raccolto è già su di noi.” Sarà meglio che si affrettino, pensò tra se e se. Mentre le tartarughe, imperterrite, continuavano a masticare, purũ-purũ, purũ-purũ…

La vista del jabuticaba ricoperto di fiori è decisamente difficile da sopravvalutare. Letteralmente vestito di petali, l’albero diventa l’equivalente più imponente di un ramo di mimosa. Chissà quante storie furono ispirate da un simile splendore ultramondano…

Dal punto di vista scientifico, la pianta del P.cauliflora, è un’appartenente alla famiglia delle mirtacee, caratterizzata da un tratto genetico molto raro: la cosiddetta caulifloria, ovvero la propensione a produrre i frutti direttamente dal tronco, piuttosto che a partire dai rami più sottili. Un tratto condiviso con molte altre specie più celebri, come la papaya (Carica papaya) il produttore del baccello dei semi da cui proviene la cioccolata (Theobroma cacao) il maleodorante ma leggendario durian (gen. Durio) e l’albero del grande frutto del giaca del Sudest Asiatico (Artocarpus heterophyllus). Non a caso, tutte piante originarie di climi caldi ed ambienti configurati sulla falsariga della foresta tropicale, per via di un tratto ecologico tipico di questi luoghi: la stratificazione faunistica in senso verticale. Il che vorrebbe indicare, in termini letterali, la tendenza degli animali del vicinato ad occupare un particolare punto in altezza di questo letterale condominio a più piani, composto dalla moltitudine di radici, fusti cortecciosi e il mare ininterrotto di fronde intrecciate tra loro, tra la moltitudine della fotosintesi, che compete per guadagnarsi una valida via d’accesso alla fondamentale luce del sole. Ciò che avviene, dunque, in un simile contesto operativo, è che i frutti alti siano mangiati solamente da uccelli e determinate specie di scimmie, mentre quelli a mezza altezza saranno appannaggio di mammiferi ed insetti, lasciando soltanto gli scarti per il variegato popolo delle tartarughe. E come potrebbe mai essere, tutto questo, nell’interesse della pianta? La quale, per assicurarsi un’appropriata propagazione dei semi, null’altro vorrebbe che avere i suoi frutti consumati da uccelli, scimmie, insetti e tartarughe. Ecco allora che arriva l’idea: fare in ogni parte del proprio corpo centrale una possibile offerta di cibo, a vantaggio di chiunque dovesse passare di lì. L’albero della jabuticaba, tuttavia, risulta singolare anche nel panorama delle cauliflorie che tendono, generalmente, ad avere pochi e grossi frutti, sfruttando la capacità di sostegno del peso maggiore rispetto a quella dei singoli rami. Mentre nel caso della specifica pianta, soprannominata per l’appunto “uva brasiliana” l’approccio è quello di una maggiore quantità di veri e propri chicchi, la cui disposizione disordinata risulta essere l’origine stessa dell’aspetto surreale di questo arbusto.
Il frutto in questione, ad ogni modo, risulta essere molto apprezzato da chi ha avuto la fortuna di assaggiarlo. Quasi tutti abitanti, o visitatori della terra sudamericana, vista non soltanto la tendenza dell’albero a prosperare unicamente nel contesto climatico di provenienza, ma anche la sua crescita straordinariamente lenta (si parla di fino a 20 anni prima della fioritura) e il fatto che i globi nerastri, una volta colti, si conservino soltanto per pochi giorni, persino se prontamente trasferiti all’interno di un frigorifero. Il frutto viene consumato spesso così com’è, avendo cura di rimuovere la buccia dal gusto acido e l’alto contenuto di tannino, provando un sapore estremamente dolce talvolta descritto come una forma più estrema del chicco d’uva. Ma particolarmente apprezzate sono anche le marmellate, le bevande aromatizzate con il suo succo ed anche preparazioni più creative, come salse per piatti a base di carne o verdure. Dal punto di vista nutrizionale, la jabuticaba viene considerata estremamente benefica, visto l’alto contenuto di flavonoidi, antiossidanti e la presunta capacità di allontanare il cancro.

L’albero di jabuticaba può arrivare a vivere fino a 200 anni, continuando a produrre frutti per l’intero periodo plurisecolare. Essi diventano, tuttavia, meno numerosi col proseguire degli anni (Nulla che una lunga scala, o la spontanea agilità di un bambino, possano trovare difficoltà a superare)

Tre le ombre e le luci della foresta, strani esseri prosperano al sicuro dalle presunzioni del senso comune. Pesci-fantasma simili a storioni, dalle lunghe zampe e la bocca perennemente spalancata, in un richiamo che soltanto i più antichi possono sperare di riuscire ad udire. Le sagge tartarughe, che vivono contemporaneamente nelle regioni permeabili di entrambi i mondi, parlano con essi, ascoltando gli occulti richiami.
Per loro è la fame, a guidare i movimenti che sono espressione di un bisogno pressante ed imprescindibile. Per noi, la dolce ricerca di una fondamentale verità: che ogni prodotto della natura, per quanto strano, ha un intento benevolo che ci precorre, ed andrà ben oltre il fugace attimo che ci appartiene. Come una nota modulata di flauto, in uno sconfinato mare di purũ-purũ, purũ-purũ…

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