Il seme al centro di un’industria: la cioccolata

Visto da fuori, sembra proprio un melone d’inverno. Se soltanto quest’ultimo si fosse ritrovato il DNA del suo cultivar incrociato con quello di una misteriosa pianta preistorica, assumendo un aspetto selvatico e strano. Bitorzoluto, crestato, dalla solida scorza. Se lo scuoti, produce un suono: drrr, drrr. E se vi dicessi che questo frutto, in effetti, l’avete mangiato non soltanto una volta, bensì migliaia? Centinaia di migliaia di volte? Ci sono persino buone probabilità che esso rappresenti, a conti fatti, il vostro cibo preferito. Caso vuole in effetti che, per ogni volta in cui i vostri genitori vi redarguivano con il consiglio: “Basta coi dolci, mangia verdure” era loro intenzionale scelta la mancata considerazione di alcune delle componenti vegetali, pressoché imprescindibili, in ogni merendina che si rispetti. Tra cui lo zucchero (canna, barbabietola) la vaniglia (innocente orchidea) e lui/lei, la sostanza Theobroma, dall’espressione greca che vuole significare “[il più] divino tra gli alimenti”. Cacao che nutre, polvere lenitrice, in grado di curare ogni fisima dello spirito mentre assuefà il corpo.
È incredibile, tutto considerato, quanto il consumatore medio di questa delizia, tra le più amate dai palati del mondo moderno, abbia poco presente il suo aspetto al momento in cui prende forma nel mondo della natura. In mezzo alle foreste di Brasile, Colombia e Perù, dove un tempo costituiva una parte inscindibile dei più importanti rituali Maya ed Aztechi. Popoli tra i quali, la preparazione di una simile regalìa a guisa di bevanda era prerogativa e appannaggio esclusivo delle classi al potere, costituendo un segreto gelosamente custodito dai sacerdoti dei templi al centro di ciascuna delle due civiltà. Ma il cacao era anche una merce di scambio, nel senso che i suoi semi piuttosto grandi, oggi chiamati fave, circolavano in forma essiccata al di là dei confini, assolvendo alla mansione di merce di scambio, una sorta di valuta ante-litteram. Bitcoin commestibile, se lo vogliamo. Finché il 15 agosto nel 1502, una data destinata a restare iscritta nella storia della gastronomia, Cristoforo Colombo e suo figlio Fernando, nel corso della loro quarta missione nelle Americhe, catturarono una canoa poco fuori dal territorio di Montezuma. All’interno della quale, con interesse, scoprirono l’alimento che gli riuscì di associare alle testimonianze frammentarie della strana, brodosa bevanda di cui gli “indios” andavano così eccezionalmente fieri. Fu loro scelta, quindi, per non dire imprescindibile prerogativa, inviare il carico verso la corte spagnola dei Re Cattolici. Dove inizialmente, il consenso delle opinioni in merito fu largamente negativo. L’approssimazione europea del cosiddetto chocolātl mesoamericano aveva in effetti un gusto forte ed amaro, essendo inoltre caratterizzato da una consistenza granulosa che lo rendeva difficile da mandar giù. Eppure, ben presto iniziò a circolare la voce che come tutti gli alimenti sgradevoli, il cacao facesse bene alla salute. Che potesse costituire, addirittura, la panacea di tutti i mali! È del resto una cosa nota che la theobromina, tossica per cani e gatti, sia una sorta di droga leggera, in grado di dare assuefazione. Quella che Colombo aveva riportato in Europa, stavolta, era la più leggera, e per questo pervasiva, di tutte le droghe della storia. Riusciremo mai a ringraziarlo abbastanza per questo?
Ma il mondo industriale è anche questo. Dimenticare, sull’onda del sogno post-modernista, la provenienza effettiva di tutte le cose, persino quelle più importanti per noi. Così all’inizio del video qui riportato, in cui lo youtuber H.I.S Survival ci mostra come fare la cioccolata “da zero” ci si può anche aspettare un certo grado di perplessità da parte dello spettatore medio. E persino disagio. Lo sapevate, ad esempio, che la barretta più amata da tutti i bambini è un prodotto della fermentazione, come la soia, la birra, o il cavolo coreano?

In uno strano universo alternativo, i conquistadores non trovarono mai il carico di semi essiccati della pianta Theobroma cacao, bensì una canoa piena di Cupuaçu (Theobroma grandiflorum). Pianta imparentata, che può essere sottoposta lavorazioni simili ed oggi rappresenta una speranza per il futuro. Chissà se in quel mondo, la chiamano lo stesso cioccolata.

È una visione suggestiva e violenta, quella offerta dal barbuto survivalista mentre opera, secondo la prassi, per strappare il divino baccello dal tronco portante, con grandi colpi vibrati sfruttando un tagliente machete. Caratteristica del Theobroma, così come delle altre specie appartenenti alla famiglia delle Malvacee, è il far crescere i propri frutti attaccati al tronco o ai rami più anziani, richiedendo un braccio forte e una lama particolarmente tagliente per poterseli accaparrare. L’orrore poi non finisce qui, con la scena seguente che consiste nel prendere a martellate la suddetta scorza, prima di estrarre, uno ad uno, i grossi semi contenuti all’interno. Non è difficile capire, dopo aver osservato una simile scena, perché la cultura dei Maya associasse una simile prassi a quella dell’estrazione del cuore dagli animali sacrificali, un rituale ritenuto essenziali per la loro religione spietata. Si credeva del resto all’epoca, che il cacao fosse stato il dono diretto del serpente piumato Quetzalcoatl nei confronti degli umani, gesto per il quale era stato bandito dal regno degli Dei.
La fase successiva, come precedentemente accennato, è l’inazione. Per un periodo di fino a cinque giorni, durante i quali l’interno del frutto, ormai esposto all’aria, viene lasciato indisturbato all’interno di appositi contenitori, dove sarà attaccato dai batteri in grado di far emergere il suo più recondito e prezioso sapore. Un’operazione condotta per lo più a secco. Il nostro H.I.S Survival, dal canto suo, decide di aggiungere alla partita una certa quantità di lievito, al fine di velocizzare il concludersi dell’operazione. Al termine della quale, da un rubinetto posizionato ad arte, egli può già estrarre il liquido fuoriuscito dal cacao, dall’odore molto lieve di aceto e un gusto che lui definisce “Come una caramella Jolly Rancher liquefatta, assolutamente deliziosa!” Ciò detto, se la preparazione della cioccolata si fosse fermata a questo, oggi difficilmente essa potrebbe costituire un caposaldo periferico della nostra dieta e del concetto stesso di comfort food. Ciò che viene dopo, nella preparazione, è dunque la tostatura. L’autore del video, dopo aver rimosso le bucce con un apposito macchinario, dispone una certa quantità di chicchi su teglie posizionate in un forno, tramite il quale verrà espulsa ogni traccia d’umidità residua, rendendo i semi pronti al trattamento ulteriore. Segue quindi l’inserimento all’interno di un potente frullatore, tramite il quale l’ammasso viene letteralmente liquefatto, verso l’ottenimento di due prodotti: liquore di cioccolata, e burro di cacao. È quindi dalla mescolanza variabile tra i due ingredienti, con l’eventuale aggiunta di altre componenti come la vaniglia, il latte ed agenti emulsionanti, che si giunge ad una delle tre tipologie possibili di risultato ufficialmente riconosciuto: fondente, al latte o bianco. Componente, invece, irrinunciabile prima della solidificazione mediante l’uso del freddo, è l’aggiunta di zucchero, effettivo ed unico sine-qua-non dell’alimentazione, non sempre eccessivamente salutare, dell’epoca contemporanea e moderna. Considerate ad ogni modo come la cioccolata nella sua forma oggi principale, quella da mordere, non ebbe modo di esistere fino al 1847, quando il tipografo inglese Joseph Fry trovò per primo al maniera di rendere plasmabile la deliziosa sostanza, creando la prima barretta pronta alla consumazione.

Energia rotazionale trasferita nel recipiente, che trasforma e nobilità il gusto innato della natura. Potremmo vivere senza una simile esperienza? Saremmo ancora, a tutti gli effetti, le stesse persone?

Prima di giungere alla procedura mostrata nel video, tuttavia, numerose vie di possibile miglioramento dovettero essere esplorate. A partire dalla procedura, oggi considerata essenziale, del conching, donata al mondo dal francese Rudolphe Lindt, che nel 1879 lasciò erroneamente accesa una macchina impastatrice per tutta la notte, scoprendo così che il cioccolato risultante diventava del tutto privo di consistenza granulosa, e naturalmente lucido come l’interno di una conchiglia. Da questa presa di coscienza, in seguito, sarebbe nata la macchina omonima, del tutto simile alla versione ridotta della mola usata per il pane, il cui uso sapiente, molto spesso, è proprio il tratto distintivo tra un prodotto di qualità o scadente. Un’altra evoluzione successiva sarebbe stata l’attenta cura della tempra, esattamente come avveniva nell’arte della metallurgia, con successive fasi di raffreddamento e riscaldamento, fino all’ottenimento di un reticolo cristallino considerato ottimale, che non si squagliasse troppo facilmente, né si polverizzasse al momento del morso. Un qualcosa di assai più difficile, ed assolutamente primario, qualora la cioccolata in questione debba restare esposta all’aria per un periodo mediamente più prolungato, come nel caso delle uova di Pasqua tradizionali.
E così raggiunse l’apice della sua esistenza, questo dono non richiesto, ma molto apprezzato, da parte dello scaglioso e piumato Prometeo mesoamericano. Non a caso, oggi gli archeologi ritengono, sulla base di remote testimonianze, che il cioccolato fosse già consumato all’epoca degli Olmechi, la civiltà che ha prosperato tra il 1400 ed il 400 a.C. in quest’area geografica, mentre ancora in Eurasia imperversavano le invincibili legioni di Roma. Nutrite, anch’esse, da un diverso tipo di fermentazione: quella del vino, altro nettare inebriante dei silenziosi Dei. Ed è significativo, quale ampia parte della storia dell’uomo sia stata influenzata e modificata dall’opera di interi eserciti d’invisibili batteri. Piccoli guerrieri sul territorio dell’esistenza. La cui presenza pervasiva, ed imprescindibile, allieta le nostre papille gustative. Rendendoci tutti, in qualche sottile maniera, migliori. O diversi?

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