Che cosa succede quando gli alberi gridano: “Lasciami stare!”

Giganti silenti che condividono la stessa ombra, arrivando a toccarsi con le radici sotto la coperta del suolo terroso. I cui tronchi si guardano, attraverso ruvida corteccia, nutrendosi delle stesse sostanze, anelando alla stessa luce di un Sole distante. Quanti approcci esistono, alla vita comunitaria vegetale… Nient’altro che tre, in effetti: primo, le piante competono tra loro. È il caso, questo, della tipica foresta pluviale, dove arbusti sempre più alti tendono a crescere, e crescere sempre più, oscurando i propri vicini a discapito della loro sopravvivenza. Secondo, è possibile che le piante si ignorino, continuando ciascuna la propria vita, finché non finiscono per capitare coi rami dell’una, contro quelli dell’altra. Ed è allora che si verifica, in alcune particolari specie, la terza ipotesi: un esempio lampante di buon vicinato. Ce lo descrive con entusiasmo Yan, il gioviale individuo che parrebbe presentarsi come una guida turistica della Malesia, in questo video girato sotto il tetto di un’intera foresta di Dryobalanops aromatica (la canfora di Sumatra) le cui singole chiome s’intersecano contro il cielo, lasciando evidenti spazi vuoti simili a dei canali, mentre l’aspetto complessivo dell’opera della Natura, in questo caso, assomiglia a un verdeggiante puzzle ancora ben lontano dall’essere completato. “Vedete… Qui da noi, abbiamo alcuni dei giardinieri più alti del mondo. Loro potano, con delle forbici…” Scherza il nostro anfitrione a distanza, quindi aggiunge, con espressione più seria sotto il suo gran paio di baffi: “No, si tratta in realtà di qualcos’altro. Le foglie, sappiatelo, producono del gas etanolo. Quindi percependo quello dei propri vicini, fanno di tutto per evitarsi a vicenda. Riuscite ad immaginare il perché?”
Già, la ragione. A tal punto è insolito l’aspetto visuale dell’intera vicenda, così sorprendente il suo effetto finale, che può passare di mente la necessità d’interrogarsi sulla sua stessa capacità di verificarsi. Poiché le piante si muovono, si, per l’effetto del vento. Ma al di fuori di questa specifica eccezione situazionale, a quanto ne sappiamo, semplicemente non operano sui ritmi e le metodologie del nostro stesso mondo animale. Al punto che, quando prendiamo in considerazione un esponente di questa categoria vivente, raramente lo consideriamo capace di prendere una o più decisioni. Figuriamoci, tutelare la mutua sopravvivenza del branco, ovvero nel caso specifico, la foresta, accrescendo la quantità di luce che può penetrare all’interno, e precludendo ai parassiti una facile autostrada da percorrere sopra il suolo verso la loro prossima vittima designata. Ma invece: così come veniva narrato nei racconti folkloristici, e nelle fiabe dei bambini, gli arbusti potrebbero avere una loro intrinseca forma di saggezza. Quella che nasce proprio dalla sostanziale ed antica incapacità di intraprendere il percorso più difficile, rendendoli un perfetto laboratorio per gli esperimenti a lungo termine dell’evoluzione. Così che, un millennio dopo l’altro, essi diventano il prodotto di una quantità sempre crescente di “pratiche ideali” mirate a massimizzare l’estensione della loro permanenza su questo pianeta, con una diffusione conseguentemente maggiore dei propri semi. Dal che deriva, incidentalmente, questo fenomeno, chiamato dalla comunità accademica anglofona crown shyness ovvero, timidezza delle chiome. Vi sono diverse ipotesi sull’effettiva modalità del suo verificarsi, riscontrata sia tra cospecifiche che piante appartenenti a famiglie del tutto diverse, benché nessuna includa, in effetti, la spiegazione impiegata dalla guida del bosco Yan. Il primo ad annotarlo nei propri diari scientifici, e provare a suggerirne una causa fu Jacobs nel 1955, che studiando approfonditamente gli eucalipti della sua natìa Australia, notò come in prossimità degli spazi vuoti sul tetto del bosco, le piante in questione presentassero un maggior numero di abrasioni e punti di rottura, con una sospetta assenza di piccoli rami e teneri virgulti. Da questa scoperta, quindi, elaborò la sua più importante teoria…

Una fantasia di verde e l’argento sfavillante del cielo, che pur ci omaggia della sua luce, nonostante gli angusti passaggi attraverso cui necessità d’incunearsi. Nessun bruco, in quel modo, sarà condiviso tra i legnosi fratelli.

Si tratta di un concetto che sarebbe stato ripreso, nel 1983, da Putz et al, nella sua analisi statistica sull’occorrenza della timidezza di chioma nelle macchie di Avicennia germinans (mangrovia nera) nelle foreste semi-allagate del Costa Rica. Dove, secondo quanto gli riuscì di dimostrare, sussiste uno stato dei fatti nel quale gli alberi dotati di un fusto largo e saldo presentano un’ampiezza di spazi vuoti particolarmente ristretta, rispetto a quelli prodotti dai loro vicini più flessibili che sanno piegarsi nel vento. Osservazione in funzione della quale, trovandosi d’accordo col suo insigne predecessore, il botanico scelse di attribuire la rigida suddivisione tra i rami dei diversi esemplari al naturale strofinamento causato dalle correnti aeree terrestri, che letteralmente causano l’auto-potatura dei giovani rami, ancor prima che questi possano intrecciarsi vicendevolmente come le corna di un cervo in amore. Questo nonostante uno studio di Francis S.P. Ng (1977) avesse in effetti dimostrato come anche in assenza di vento, la semplice presenza di una forte fonte di luce ultravioletta potesse indurre gli alberi di canfora ad evitarsi a vicenda. Elaborando quindi su questo concetto, lo scienziato malese scelse di attribuire talea specifica capacità vegetale ad un impiego per così dire intelligente delle cellule specializzate note come fitocromi. All’interno delle quali, per un’interazione tra i gruppi di atomi noti come cromofori e l’apoproteina prodotta dagli alberi fin qui citati, questi ultimi pongono le basi per percepire, in una maniera molto basica, la direzione da cui proviene la luce.
Tra le specie in cui è stata verificata, e largamente studiata, la timidezza della chioma spiccano negli Stati Uniti gli appartenenti alla specie Pinus contorta (Pini di Lodgepole) spesso coltivati a scopo di foresteria. Tanto che lo spazio, occasionalmente assai ampio, lasciato tra i diversi appartenenti ad un gruppo di alberi piantati troppo vicino, può ridurre la loro propensione alla crescita, causando una riduzione del prodotto ligneo usabile al termine di un ciclo di propagazione. Più di un boscaiolo, tuttavia, ritrovandosi al di sotto di una simile trapunta mistica evidenziata dall’interconnessione tra spazi pieni e vuoti, ha finito per interrogarsi sull’intera faccenda, concludendo, in maniera variabilmente sofisticata, che la natura è davvero una cosa meravigliosa. In Italia, nel frattempo, tra gli alberi in cui è osservabile spicca il genere del faggio comune (Fagus) un arbusto noto per la sua propensione ad operare in gruppi di esemplari interconnessi tra loro, attraverso l’auto-innesto delle radici, e capaci proprio per questo di condividere le sostanze nutritive, operando nei fatti come se si trattasse di un singolo organismo. Scavando al di sotto di una tale foresta, diventa in effetti possibile trovare delle propaggini di alberi ormai morti da tempo, le quali incredibilmente ancora sopravvivono, perché nei fatti parte di un intero network sotterraneo simile alla rete stradale di una città. E quale miglior ausilio, ad un simile stile di vita per gli alberi, che evitare di farsi ombra a vicenda, crescendo come monadi nella radura degli imperscrutabili sentimenti vegetali… Ciò che colpisce, ad ogni modo, resta la natura spesso asimmetrica di queste chiome, così distanti dall’anelito costante della natura verso il concetto del bello in senso assoluto, sostituito da un diverso tipo di splendore: quello che persegue un nobile, nonché utile scopo.

I pini di Lodgepole sono una delle principali ragioni dell’esistenza di un campo di studi noto come ecologia degli incendi boschivi. Questo perché l’arbusto in questione produce delle pigne chiuse (serotinia) che liberano i propri semi solo in presenza di altissime temperature. Il che assicura che i figli possano crescere sulle ceneri dei propri genitori, facendone un prezioso concime per la loro crescita a venire.

Solidarietà ad ogni costo, abnegazione, qualche drammatico tradimento ad opera d’intrusi e parassiti. Colpi di scena in quantità spropositata. Chi ha detto che le piante conducono una vita noiosa, molto probabilmente non le conosceva. O ancora, è caduto nella solita trappola, d’interpretare il mondo secondo i ritmi di noi effimeri esseri bipedi e (più o meno) pensanti. Per la cognizione, facente parte delle culture di mezzo mondo, secondo cui l’uomo sia la misura di tutto, la forma da cui deriva l’intero frattale di cui si compone l’Universo.
Qualunque cosa si possa dire di noi, di sicuro non ci è mai mancata l’arroganza. E l’egoismo, convenientemente considerato una “propensione per lo più naturale.” Voglio dire, guardate il leone che divora la gazzella! Osservate il falco, che ghermisce l’agnello! Ed ora effettuate una comparazione, seguendo lo sguardo baffuto della guida turistica Yan, con l’altruismo delle svettanti piante di Canfora malese. Vi lascio scegliere, a questo punto, quale sia il più proficuo ispiratore di uno stile di vita che conduce al maggior successo futuro, per un migliore e più duraturo avanzamento della collettività civile. Sono pronto a scommetterci: non tutti si troveranno d’accordo. Ed è questo è un po’ il nesso, o per così dire la radice, di alcuni dei più grandi problemi della nostra invidiabile Società Moderna.

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