Il ponte che c’insegnò a rispettare il vento

Spalancare i forzieri dell’istituto dei cinegiornali inglesi British Pathé, ormai da tempo offerti gratuitamente online, può riservare significative sorprese. Avete mai visto, ad esempio, un ponte lungo quasi 2 Km che oscilla nel vento? È di questo che parlo: la sua intera struttura di acciaio e cemento, con tanto di cavi di sospensione e torri svettanti sopra lo stretto che si affaccia sul grande Pacifico, ridotto all’intrinseca leggiadria del bambù nella foresta dei pugnali volanti. Finché l’inevitabile, esiziale crollo, non ci riporti alle ragioni dell’assoluta realtà. Si tende a considerare l’avanzamento della tecnica ingegneristica come una linea diagonale che interseca i fattori del tempo e le prestazioni, quando la realtà dei fatti è più simile al susseguirsi delle onde di un mare in tempesta. La situazione progredisce, al mutare dei giorni, fino ad un picco estremo, in cui sembra che sia stato compiuto un passo avanti veramente significativo. Quando, immancabilmente, succede QUALCOSA. L’opinione contraria di una personalità insigne. Un trascurabile incidente. Anche un disastro di variabile entità… Ed è a quel punto che si tende a fare un passo indietro. Anche due. Ma poi col proseguire dei momenti, è inevitabile che ci si avvicini sempre più alla riva. E le onde che corrispondono al nostro ipotetico grafico, diventino sempre più alte. Pensate che persino Leon S. Moisseiff, il famoso progettista originario della Latvia naturalizzato statunitense che lavorò tra le altre cose al ponte del Golden Gate, fece un’esperienza che lo costrinse, pochi anni dopo, a riconsiderare il suo smodato entusiasmo per le costruzioni completamente o quasi del tutto in metallo. L’errore destinato a costare allo stato di Washington 6,4 milioni di dollari, l’equivalente di circa 30 volte quella cifra una volta applicata l’inflazione odierna. E in merito al quale, la faccenda poteva prendere una piega decisamente più disastrosa, visto che per lo meno non ci sono state perdite di vite (umane). Una delle più grandi sconfitte nella storia della viabilità statunitense. Ma anche un momento di rivalutazione delle aspettative, dal quale è scaturito un metodo migliore per progettare le cose. Tutto considerato, si potrebbe persino dire che il mondo ci ha guadagnato?
Era il 7 novembre del 1940, quando la situazione si trovò al punto critico di non ritorno. Per quattro mesi a partire dalla precedente estate, il ponte completato su richiesta dell’ente preposto statale con finanziamento della PWA (Public Works Administration) sullo stretto di Tacoma, finalizzato ad unire l’omonima città di 200.000 abitanti con la penisola di Kitsap, si era guadagnato il preoccupante soprannome di “Gerdie il galoppante”. Attraverso un periodo di febbrile rivalutazione ed approcci sperimentali, si era ormai fatto di tutto per tentare di contenere le sue impressionanti oscillazioni, che facevano sembrare a coloro che erano tanto folli da attraversarlo che le auto provenienti in senso contrario sparissero a intervalli regolari. È in effetti assolutamente impressionante, quanto una struttura architettonica così apparentemente rigida, possa in realtà flettersi per l’effetto di forze che non erano state considerate al momento della sua edificazione. Si tentò così di ancorare la carreggiata, impiegando dei cavi che collegavano la sua sottostruttura a dei blocchi di cemento collocati a riva, dal peso di 50 tonnellate. Ma i cavi si spezzarono quasi immediatamente. Furono installati degli smorzatori idraulici in corrispondenza delle torri, ma questi ultimi erano stati purtroppo danneggiati nel momento in cui la superficie delle stesse venne sabbiata, prima di passare alla verniciatura. Difficilmente, ad ogni modo, sarebbero bastati a risolvere il problema. Nell’ultimo periodo prima dell’episodio destinato a lasciare il segno nella storia della fisica applicata alle situazioni del quotidiano, fu coinvolta anche la figura di uno scienziato di fama, il Prof. Frederick Burt Farquharson dell’Università di Washington, per effettuare delle simulazioni tramite l’impiego di modellini e giungere a una soluzione. Che avrebbe incluso, nella sua idea, delle superfici aerodinamiche a lato della sottilissima striscia (appena 12 metri d’ampiezza per 2,4 d’altezza) che univa i due lati del tratto di mare tanto spesso in tempesta. E lui era lì, quel giorno, per caso o più che mai giustificata preoccupazione, in quel giorno di venti dalla potenza moderata, tuttavia capaci di portare la situazione fino alle sue più estreme conseguenze. Leonard Coatsworth, un editore del giornale Tacoma News Tribune, si trovava in quel momento ad attraversare il ponte con la sua macchina. Quando ad un trattò, udì il rumore del cemento che iniziava a creparsi per la sua intera estensione. Per evitare di precipitare nella baia, fermò subito il motore. Ma a quel punto il veicolo prese a spostarsi lateralmente in maniera impressionante, costringendolo ad aprire lo sportello e strisciare fuori. Mentre la folla osservava dalla riva, quindi, dovette camminare a carponi per i molti metri che lo separavano dalla salvezza, facendosi male alle mani e alle ginocchia. Una volta salvato se stesso e mentre i presenti si lasciavano sfuggire un sospiro di sollievo, si alzò improvvisamente in piedi ed esclamò turbato: “Accidenti! Ho dimenticato di prendere… Il cane!”

Una figura che dovrebbe essere Leonard Coatsworth lascia il ponte pochi minuti prima che diventi impossibile percorrerlo per tutta l’eternità. Il suo cappotto (coat) sembra essere in buono stato. Peccato che di cognome non facesse Dogsworth.

Il crollo del ponte di Tacoma fu un caso epocale, che condusse a numerose indagini nel tentativo di giungere ad un’attribuzione di responsabilità. Il problema principale, fu ben presto determinato, era stato lo stesso impianto progettuale di fondo per come era stato concepito dall’Ing. Moisseiff. Il quale si basava, fondamentalmente, sull’impiego di un nuovo tipo di travature di sostegno, create invece che con il classico schema reticolato, tramite l’impiego di una serie di elementi trasversali a doppia T in acciaio dall’alta gradazione di carbonio, i quali non si sarebbero MAI spezzati. Ed infatti, non lo fecero fino agli ultimi secondi prima della loro fine. Era una soluzione sulla carta davvero ineccepibile, capace di portare ad un significativo risparmio, oltre che ridurre notevolmente i tempi necessari per la costruzione. Il ponte risultante, inoltre, sarebbe stato molto più sottile ed aggraziato di qualunque altro si fosse visto fino a quel momento. Un singolo fattore, tuttavia, non era stato calcolato: che la forma piena del nuovo tipo di travi, contrariamente a quella costituita da montanti e diagonali, non avrebbe permesso all’aria di passarci attraverso. Il ponte cominciò, così, ad oscillare.
Il punto più interessante dell’intera faccenda, ad ogni modo, è che neppure questo sarebbe dovuto bastare, in linea di principio, a causare il crollo del ponte sullo stretto di Tacoma. Proprio perché le soluzioni tecnologiche impiegate, e la qualità dei materiali, erano talmente elevate da prevenirlo. Se non che il tipo di imprevisti che si verificano nel tempo medio, talvolta, possono mettere a dura prova persino le strutture più solide concepite dall’uomo. Sui libri e durante le lezioni d’ingegneria, molto spesso, l’episodio viene citato come un tipico esempio del rischio costituito dalla risonanza armonica. I venti di quel fatidico giorno che soffiavano ad appena 68 Km/h, affermano certi studiosi, si trovarono a farlo con la frequenza quasi esatta di 0,2 Hz. La quale, caso volle, corrispondeva a quella critica della struttura del ponte, generando un sistema di vortici definiti Scia di von Kármán, che avrebbero indotto la vibrazione fatale. Oggi esiste tuttavia una teoria contrastante, che vede invece al centro dell’intera faccenda l’eventualità aeroelastica dello sventolio. Che consiste in una modalità di vibrazione in cui diversi elementi di una singola struttura si trovano sincronizzati, superando di fatto il naturale smorzamento offerto dalla loro interazione. Con il risultato che ad ogni ripetersi del pericoloso movimento, questo si ritrova amplificato, diventando sempre più significativo ed impressionante. Finché inevitabilmente, la struttura non raggiunge un punto di critico di fallimento. In questo caso, si trattò dei cavi di sostegno, che soggetti in poche ore all’usura di intere generazioni, si spezzarono nettamente, con un effetto domino che portò, ben presto, l’intera campata centrale a precipitare nel punto più profondo della baia.

I fenomeni di oscillazione armonica sono tra i principali fattori dei crolli degli edifici, spesso con conseguenze disastrose. A meno che la struttura in questione, come questo curioso ponte mostrato su YouTube, non sia stata costruita con l’apposito scopo di sopportarli. Che strana (ed inquietante) attrazione turistica…

Successivamente alla valutazione dei danni e la rimozione dei detriti, la città di Tacoma andò incontro ad un significativo dilemma. Proprio nel momento in cui il ponte, che si era ormai dimostrato essenziale, doveva essere ricostruito, gli interi Stati Uniti d’America andarono incontro a quel piccolo contrattempo noto come l’attacco di Pearl Harbor (7 dicembre 1941) che fu subito seguìto dall’ingresso in guerra della nazione. Tutto il metallo risultante dalla demolizione fu quindi requisito, per costruire navi, carri armati ed aerei, mentre gli abitanti del posto si rassegnavano a percorrere nuovamente la lunga strada che permetteva di raggiungere la penisola di Kitsap per vie traverse. Il ponte non sarebbe stato ricostruito prima del 1950, tramite l’impiego di soluzioni più convenzionali e con la collaborazione dello stesso Prof. Farquharson, che testò a lungo le diverse proposte all’interno dei suoi tunnel del vento nel dipartimento d’ingegneria dell’Università di Washington. Con il risultato che la struttura finale, molto meno aggraziata ed affascinante del progetto inizialmente voluto da Moisseiff, fu ben presto ribattezzata dagli abitanti “Gerdie lo stabile”. E così, la storia raggiunse il suo epilogo (più o meno) felice. Oggi, a partire dal 2007, un secondo ponte gemello attraversa lo stretto, per meglio far fronte alle esigenze di traffico sempre maggiormente significative.
E per quanto riguarda il cane: mi dispiace, non fu possibile portarlo in salvo. Dopo la rocambolesca fuga del giornalista, che in quel momento lo stava riportando dalla figlia e certamente non lo avrebbe mai abbandonato coscientemente, lo stesso Prof. Farquharson si mise in pericolo personalmente, per tentare di prenderlo e portarlo in salvo. Mentre il ponte oscillava in maniera sempre più intensa, un passo dopo l’altro, giunse fino al luogo in cui si trovava la malcapitata creatura. Ma sfortunatamente il cocker spaniel terrorizzato, quando gli allungò la mano, balzò in avanti tentando di morderlo. Quindi al ritirarsi del suo salvatore, e nonostante fosse stato lasciato aperto lo sportello, decise testardamente di continuare a fare la guardia all’automobile fino all’ultimo secondo della sua stessa esistenza e ben oltre quel transitorio momento. Il suo nome era Tubby. Continua a farlo tutt’ora.

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