L’uccello perduto sul palcoscenico della Nuova Zelanda

Poco più di 300 esemplari. Ve ne rendete conto? Questo è quello che resta, nelle stagioni più sfortunate, vivo: poco meno di 300 esemplari. Quando si analizza la fauna di una terra con occhio critico, che non sia necessariamente orientato all’aspetto scientifico della biologia, diventa possibile individuare un “tema” per così dire, una sorta di filo conduttore tra i diversi animali che la occupano, o l’hanno occupata attraverso le generazioni. Così come le grandi pianure americane possono diventare  nella mente il paese dei quadrupedi in grado di correre veloci (cavallo, bisonte, antilocapra…) o l’Africa centrale è degli esseri da un’ipertrofia spiccata (elefante, rinoceronte, ippopotamo) dal canto suo la Nuova Zelanda… Ha sempre avuto la nomina di terra in cui gli uccelli non sapevano volare. Da quando le Due Isole e il resto dell’arcipelago videro svettare l’ultima sagoma del possente moa (Dinornithidae) la creatura simile a uno struzzo o un emu, se non che alta all’incirca 3,60 metri, l’evoluzione ha qui prodotto la più fantastica selezione di questa impossibile contraddizione in termini, frutto della quasi totale assenza endemica di predatori. Quasi come se ogni ambito del mondo volatile, dovesse trovare la sua controparte in questo modo modificata: così qui abbiamo l’anatra terrigena, l’alzavola delle Auckland (Anas aucklandica); il pappagallo che cammina nel sottobosco, anche detto kakapò (Strigops habroptilus); quello strano ed emblematico uccellino, per certi versi più simile a un mammifero, comunemente noto col nome di kiwi (Apteryx). E poi, come dimenticare le svariate specie di pinguini, che alla stessa maniera di altre terre non propriamente polari, purché siano dell’emisfero meridionale, trovano refrigerio all’ombra delle sempre più ridotte zone boschive in prossimità del mare. Mentre più si tendeva a salire nell’entroterra, un tempo, maggiormente si aveva l’opportunità di incontrare lui. La cosa tonda con le zampe rosse, il becco largo e lo scudo frontale, anch’esso di un vivace color pomodoro, mentre un folto piumaggio cangiante tra il verde e l’azzurro crea per lui un contrasto piacevole e appariscente. Non propriamente una pavoncella, nel suo muoversi rapido e poco aggraziato, ma piuttosto una specie di pollo sovradimensionato (parliamo di 63 cm per 2,7 Kg in un maschio adulto) propenso a brucare placidamente la macchia di graminacee qui nota come il “tussock” attingendo occasionalmente alla base dei grossi cespugli verdi, che perfora per suggere la dolce linfa nascosta sotto il coriaceo legno marrone. Il suo nome: takahè, alias Porphyrio mantelli o “pollo sultano incapace di volare”.  Ma visto che ne sto parlando al passato, credo sia il caso di rassicurarvi (se non fosse bastato il video) questa creatura non è estinta. Ancora. Semplicemente, ha ridotto il suo habitat allo stato brado a una sola area montana, i picchi circostanti il monte Murchison, oltre ad alcune oasi isolane dove sopravvive sopratutto grazie all’aiuto dell’uomo, che tenta di arginare l’effetto di errori fatti dai suoi insigni predecessori.
Benché questo concetto stesso di “errore” in se stesso, dovrebbe contenere un certo grado di pentimento latente. Laddove dall’epoca della prima colonizzazione da parte del popolo polinesiano noto come i Māori, che vi ricordo non essere nativo di questa terra, la principale qualità che venne riconosciuta al takahè fu il suo gusto indubbiamente saporito, in grado di far tornare l’appetito a qualsiasi nostalgico colono proveniente da terre lontane. È ovvio che non ci fosse molto che una creatura simile potesse fare per sfuggire alle attenzioni del cacciatore, così come altrettanto inevitabilmente, il peggio doveva ancora venire: così quando nel 1642, il navigatore olandese Abel Tasman aprì le porte di questi luoghi alla venuta degli occidentali, diverse specie animali finirono per seguirli a bordo delle loro navi. Gente proveniente da un paese che, per certi versi, potremmo definire da incubo: l’Europa dei ratti, dei gatti e dei cani, che si inseguono a vicenda dal primo giorno della loro stessa esistenza. O delle martore predatrici, piccoli carnivori alla perenne ricerca di uova e pulcini. Qualcosa d’inusitato per i dolci, dolci uccelli della Nuova Zelanda, che non avevano mai neppure sperimentato il freddo di un vero inverno. Figuratevi lo scatto delle fauci di un piccolo argentovivo, il demone peloso dei cupi giorni a venire… Aggiungete a questo, tutti gli ingredienti del perfetto animale in via d’estinzione: una maturità sessuale raggiunta tardi (6 anni d’età) per una vita naturalmente lunga (15-20 anni allo stato brado) la prole piuttosto limitata nel numero (massimo 3 uova a stagione) l’incapacità di migrare. Un cocktail vincente che avrebbe inevitabilmente portato, esattamente nell’Anno del Signore 1851, a dichiarare con sicurezza la sua avvenuta estinzione. Se non che le risorse della natura sono talvolta impreviste, e così quelle dei suoi figli più apparentemente inabili e sfortunati…

Gioia, giubilo, trionfo: sulle montagne Murchison, in Fiordland, addetti alla conservazione naturale liberano la prossima generazione di takahè allevata in semi-cattività, in una spettacolare coordinazione teatrale dei gesti.

Il takahè, detto in origine anche notornis, è in realtà un appartenente piuttosto conforme alla famiglia dei rallidi, che include specie come le gallinelle, schiribille e folaghe. Le quali posseggono notoriamente ali corte e tondeggianti. naturalmente inadatte al volo. Caratteristica certamente portata alle sue più estreme conseguenze dal già citato ambiente poco competitivo della Nuova Zelanda. Lungi dall’essere una debolezza poi, questa caratteristica li ha resi in grado di conservare maggiormente le proprie energie caloriche, permettendogli di andare a cercare il cibo su un raggio molto più vasto prima di doversi fermare a riposare. Questa piccola migrazione, per così dire a passo d’uccello, è un’altro punto in comune con altre specie di ralli, che nella stagione invernale tendono a scendere dai loro territori montani, per andare a cercare rifugio tra le foreste situate più a valle nel territorio di appartenenza. Il che costituisce un ulteriore problema per la conservazione, data l’introduzione pregressa di un’altra specie europea, il cervo, che compete con i takahè per la conquista delle limitate risorse vegetali commestibili presenti in queste regioni. Una caratteristica, nel frattempo, piuttosto insolita tra i suoi parenti pennuti è l’assoluta monogamia, che lo porta a formare delle coppie solide all’età di circa 12 anni, che resteranno inscindibili fino alla fine della loro stessa esistenza. O il colpo, più o meno accidentale, di un cacciatore.
Il takahè ha infatti un altro nemico, questa volta del tutto endemico e certamente inconsapevole, tra le verdeggianti distese della terra resa nuovamente celebre per l’effetto del Signore degli Anelli: si tratta del pūkeko, o folaga di palude austro-asiatica (Porphyrio melanotus) che ha la significativa colpa di assomigliargli piuttosto da vicino, costituendo nel contempo una specie notoriamente invasiva, che rovina l’ambiente per creature più delicate e rare. Intendiamoci, è ragionevole dire che per un esperto, gli uccelli siano decisamente diversi: il pūkeko è infatti più sfinato, ha gambe sottili con un becco più piccolo e molto meno prominente. Inoltre, fatto non da poco, possiede il segreto del volo. Questione che tuttavia, non sembra aver creato una distinzione poi così netta per chi ne avrebbe dovuto possedere una. Così che, in almeno due casi dall’eco internazionale non trascurabile, l’ente per la conservazione nazionale che si era affidato a dei cacciatori ricreativi per ridurre la popolazione dei pūkeko, si è ritrovato a dover gestire il caso di operatori che, per sbaglio, avevano colpito una pluraliltà di esemplari del ben più raro e prezioso takahé. Quattro sull’isola di Motutapu, nell’ultimo caso risalente al 2015. E ciò nonostante fossero stati attentamente istruiti sulle differenze tra i due animali, soltanto perché il personale realmente qualificato, purtroppo, non se la sentiva d’impugnare i fucili. Una bruttissima storia, soprattutto quando si considera come anche l’uccisione di una quantità così ridotta di uccelli possa effettivamente corrispondere a una percentuale del 5% sulla popolazione totale rimasta, o come affermò in maniera matematica l’Huffington Post: “L’equivalente di 160 tigri o 93 panda.” (cit.)

Le oasi naturali isolane della Nuova Zelanda costituiscono, nella maggior parte dei casi, un vero paradiso per gli uccelli in via d’estinzione, mantenuti a distanza di sicurezza dal possibile assalto di un qualsivoglia predatore. Fatta eccezione, purtroppo, per l’uomo.

Nel frattempo, non è che ai takahè rimasti liberi, sulle selvagge montagne di Murchison, stesse andando poi tanto meglio. Nel 1984 ad esempio, per un’invasione improvvisa probabilmente collegata al mutamento climatico di ermellini (Mustela erminea) i nidi indifesi dell’uccello furono presi d’assalto, con eccidio significativo di uova e pulcini. Un disastro difficile da contenere, che ridusse a soli 93 esemplari la popolazione rimasta allo stato brado. In altri termini, il pasciuto passeggiatore dei campi di tussock sembra appartenere a quella genìa degli animali naturalmente sfortunati, la cui sopravvivenza, ormai, può dipendere unicamente da uno sforzo cosciente dell’uomo. E in merito a questo possiamo affermare che un certo impegno è stato dimostrato attraverso gli anni. Che poi possa dimostrarsi abbastanza per continuare a vedere nel suo ambiente natìo questa insolita e buffa creatura, è tutto un’altro paio di maniche, o penne che dir si voglia.
Come avviene nella maggior parte dei casi, sarà il tempo ad avere l’ultima parola. Poiché sembra che le creature più concettualmente o vagamente simili a dinosauri, oggigiorno, facciano il possibile per ricongiungersi a loro. Ma non è forse vero, che c’è sempre un barlume di speranza, nel vento che percorre l’Oceano nella direzione della Croce del Sud?

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