La freccia che ferisce se il proiettile fallisce

Il bianco e nero indica l’appartenenza a un altro tempo. Così come, con pari evidenza, il particolare soggetto che viene trattato all’interno del video: l’addestramento alla guerra non convenzionale del Gruppo 19° delle Forze Speciali, una divisione militare facente parte del corpo della Guardia Nazionale statunitense, formata in larga parte da cittadini riservisti. Sembra una contraddizione in termini: un documentario con intendo propagandistico che non mostra tanto il massimo della tecnologia, della preparazione fisica, tattica e logistica, bensì quello che potrebbe essere un gruppo di amici con una serie di hobby piuttosto particolari. Come avventurarsi tra il gelo in mezzo alle montagne dello Utah, arrampicarsi sulla roccia nuda mediante l’impiego di attrezzatura da alpinismo, praticare il judo ed altre tipologie di arti marziali, fare il tiro a segno con diverse tipologie di armi. Ed è proprio in quest’ultimo frangente di un pomeriggio del 1961, che implicitamente, veniamo invitati a porci un’insolita domanda: c’è ancora una ragione bellica effettiva, nel mondo moderno, per tendere un comune arco da caccia e scagliare i propri dardi all’indirizzo del nemico? Certo, se l’esigenza è farsi strada senza dare l’allarme. Persino un’arma con il silenziatore, nella maggior parte dei casi, produce un suono che è possibile sentire a diversi metri di distanza. Ma la voce impostata del commentatore qui fa da preambolo a una prova tecnica di tutt’altro tipo. Uno dopo l’altro, i soldati conducono la dimostrazione. Rendendo evidente come in determinati casi, una freccia possa avere effetti più devastanti, persino delle armi a proiettili del mondo contemporaneo.
Lo scenario è marcatamente artificiale e se vogliamo, non direttamente riconducibile a una situazione effettiva di conflitto. Uno dei soldati dispone, sulla posizione rialzata di una balla di fieno, una scatola di cartone con sopra disegnato un bersaglio. Quindi tale oggetto viene riempito, avendo cura di non lasciare dei vuoti, con una certa quantità di ghiaia e terra, poi diviso da tre partizioni da materiale cartaceo di medio spessore. A questo punto, entrano in scena i soldati 1, 2 e 3. Mr. Uno è un tipo decisamente spietato, con sguardo assassino e armato di pistola Colt M1911. La posa professionale a tre quarti, il dito delicato sul piccolo grilletto, egli scaglia il suo proiettile nel centro dell’occhio di bue (Bull’s Eye!) ottenendo, tuttavia, un risultato piuttosto deludente. Il proiettile penetra a malapena la prima partizione del bersaglio. Il soldato Due è invece freddo come il ghiaccio, compunto e distaccato, mentre prende la mira con la sua carabina calibro .30 M1 a canna corta, un’arma che sarebbe rimasta in uso  tra le forze statunitensi fino ai duri anni della guerra nel Vietnam. Di nuovo, il secondo pezzo di cartone resta del tutto integro a seguito del suo sparo. Al turno del soldato Tre, dunque, le cose iniziano a farsi più serie: armato di un riconoscibile fucile M1 Garand, un’arma risalente alla seconda guerra mondiale ed allora già ritirata dal servizio attivo, il riservista fa fuoco con un’espressione indecifrabile. Se non fosse per il contesto decisamente formale, potremmo arrivare a definirla come un certo grado di speranza; piuttosto ben riposta, aggiungerei. Visto come il suo messaggio a base di piombo, prevedibilmente, penetri il primo ed il secondo pezzo di cartone, andando a fermarsi nella terza intercapedine della scatola piena di ghiaia. Il miglior risultato? Forse in alcuni contesti, l’arma sarebbe stata promossa senza il condizionale, e la faccenda chiusa immediatamente lì. Ma nel corpo 19° dove lo stesso emblema raffigurato sulla spalla delle uniformi è una spada attraversata da tre fulmini, all’interno di uno stemma con la forma di una punta di freccia, mancava ovviamente un’ultimo capitolo alla questione. Con passo cadenzato, avanza dunque sulla scena il numero 4. Senza un minimo d’esitazione, questo individuo che per la maggior parte del tempo avrà fatto il banchiere, o magari l’impiegato alle poste, piuttosto che il negoziante, incocca la freccia, tende la corda fino al suo orecchio destro, lascia che la fisica faccia il suo corso. Volando sicura fino al bersaglio, la punta penetra in profondità. Molto in profondità. Con voce trepidante, il commentatore sottolinea il momento in cui l’inquadratura viene spostata. Ed a quel punto non ci sono più dubbi: il dardo non soltanto ha perforato primo e secondo pezzo di cartone. Come se niente fosse, è finito per fuoriuscire dalla parte opposta della scatola piena di ghiaia. Arco e freccia si sono dimostrati, con evidenza preponderante, migliori del fucile. Possibile che Robin Hood fosse più forte di Rambo, in uno scontro frontale?

Una punta di freccia costruita con il vetro non potrà avere la stessa capacità di penetrazione dell’alternativa in duro acciaio. Ma come sapevano fin troppo bene i nostri antenati, è più che sufficiente per penetrare da parte a parte un cervo. O un blocco di gel balistico color giallo paglierino.

In buona sostanza, la questione è la seguente: le leggi della fisica funzionano in un modo perfettamente logico e conforme, ma non sempre intuitivo per la linea di ragionamento degli umani. Succede quindi che non esiste, nonostante quanto si potrebbe presumere, una soluzione “migliore” applicabile a tutte le tipologie di problemi. Ma una serie di approcci paralleli, ciascuno dotato dei suoi punti di forza ed, inevitabilmente, debolezze non meno rilevanti. Un proiettile, un ultima analisi, cos’è? Se non un piccolo ammasso aerodinamico di piombo, concepito appositamente per penetrare attraverso un corpo molle ed arrecare la maggior quantità di danno possibile (ed è soprattutto questo che bisognerebbe far notare a chi dice che “le armi non sono buone o cattive, soltanto uno strumento…”) Cosa che senza ombra di dubbio, riesce a fare particolarmente bene. Ma se usciamo dal vicinato delle solite vittime parlanti, la situazione ci mette molto poco a trovarsi del tutto capovolta. Perché al momento dell’impatto con una superficie sufficientemente solida, il proiettile inizia immediatamente a deformarsi. Se poi tale massa è anche friabile, essa “preme” letteralmente su di lui mano a mano che la perfora, rallentandolo come fa la sabbia con un’auto da Formula 1. È per questo che la migliore protezione contro il fuoco nemico risulta essere un mucchio di sacchetti sabbia, che qualsiasi pungolo per le vacche, o punteruolo rompighiaccio, penetrerebbe da parte a parte con la facilità di una trota che torna in direzione del mare natìo.
Prendete in considerazione, di contro, una freccia: 40-60 cm di legno flessibile ma resistente, preceduti da una punta che al giorno d’oggi, viene generalmente realizzata in acciaio armonico dall’alto tenore di carbonio. La sua energia cinetica (KE) al momento in cui viene scagliata, inoltre, è di molte grandezze inferiore a quella del piccolo proiettile di pistola e fucile. E questo, nella prova della scatola di ghiaia, costituisce paradossalmente un ulteriore punto a favore. Questo perché il proiettile, nella distanza relativamente breve tra lo sparatore ed il bersaglio, non aveva ancora avuto occasione di accelerare. Alcuni di voi forse ricorderanno la questione teorizzata da Frank Herbert, nella sua celebre serie di romanzi Dune, relativa ad un futuro in cui scudi immateriali ad energia possono fermare facilmente qualsiasi proiettile, ma non l’attacco appositamente rallentato di un’arma bianca, come un coltello o una spada. Il che porta ad alcune appassionanti scene di duello, ma anche ad una riflessione sulla natura transitoria della tecnologia. E di come il non-plus ultra ingegneristico possa diventare, grazie ad un’esplosiva invenzione, del tutto inutile da un giorno all’altro. Vedi l’esempio del gambesone, un tipo di protezione in uso durante tutto il lungo periodo tra il Mondo Antico e il Rinascimento, costituita da una serie di strati di lino sovrapposti non dissimile, concettualmente, dal moderno concetto di giubbotto balistico antiproiettile. Più efficace talvolta, nel fermare una freccia, persino della cotta di maglia o l’armatura a piastre, proprio perché composta da una serie di barriere non dipendenti tra loro, che non possono essere “tagliate” in un solo dirompente passaggio di una punta in acciaio. Ciò detto, nel momento in cui i primi archibugi fecero fuoco sui campi di battaglia dell’Occidente, tale approccio alla protezione personale diventò del tutto obsoleto. Molti anni sarebbero dovuti passare, prima che la scienza tecnica elaborasse armature in grado di assorbire un simile valore di KE.

Un membro dell’Associazione dell’Arco da Guerra Inglese dimostra l’efficacia del suo strumento elettivo nel penetrare una carcassa di maiale. Quindi una volta protetta quest’ultima con il gambesone, fallisce intenzionalmente  nel penetrarlo per esigenze dimostrative del programma Tv.

La storia umana è letteralmente costellata di vicende relative alle imprese di arcieri leggendari, in grado di scagliare i propri dardi a una distanza, e quindi con una potenza, del tutto improbabili se confrontate con le imprese degli atleti olimpici attuali. E questo nonostante la superiorità tecnica dell’arco moderno. Non è del resto impossibile da accettare che in un’epoca in cui letterali migliaia di persone si addestravano nell’uso dell’arco per ogni centinaio dei giorni nostri (in particolare, l’Inghilterra l’aveva istituzionalizzato per gli abitanti dei villaggi) avessero l’occasione di emergere figure particolarmente preparate, in grado di ottenere dei risultati comparabilmente superiori nel tiro al bersaglio e la penetrazione di materiali. Lo storico clericale Giraldus de Barri, vissuto nel XIII secolo d.C e che aveva accompagnato Enrico II Plantageneto nella sua campagna bellica contro il ribelle gallese noto come Strongbow (arco forte) raccontava delle truppe di costui, capaci di “Conficcare una freccia in una porta di quercia massiccia per lo spazio di un palmo.” Un’impresa giudicata per lungo tempo improbabile, paragonabile al racconto effettuato dallo stesso narratore del primo fenomeno di Poltergeist in Europa. Finché ad alcuni sperimentatori archeologici moderni non venne in mente di effettuare la prova, con il tipo di frecce che davvero erano in uso a quell’epoca e contesto geografico, definite bodkin. Pesanti e sottili, acuminate alla stessa maniera un ago da cucito (oggetto da cui proveniva, per l’appunto, il nome) e quindi concettualmente, non poi così diverse da un moderno proiettile da carro armato. Frecce, quindi, concepite soltanto per continuare la loro corsa, anche impattando contro scudi, corazze, gambesoni e quant’altro. Ebbene, l’esperimento riuscì perfettamente, confermando quanto narrato nelle cronache del sacerdote.
A quanto pare, il legno massiccio di quercia non era poi così impossibile da penetrare. Per quanto sia diventato, al giorno d’oggi, piuttosto raro come materiale da costruzione. Alla luce del video dei riservisti dello Utah, verrebbe anche da chiedersi quale possa essere il risultato ottenibile in circostanze simili con un moderno fucile da guerra. Per ovvie ragioni, tuttavia, sarebbe altamente sconsigliabile andare ad effettuare la prova contro la porta di qualche vecchio castello o chiesa medievale. A meno di voler iniziare a vivere alla macchia nella foresta di Sherwood, come i compagni felici di quel famoso eroe.

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