Draghi e rane nel più antico metodo per rilevare i terremoti

Nell’ultimo periodo della dinastia Han, considerata una delle più rilevanti e trasformative nell’intera cronistoria della civiltà cinese, una lunga serie di disastri più o meno naturali si abbatté sull’Impero. Registrati minuziosamente dagli storici di corte, essi giunsero ad includere inondazioni, incendi, tempeste e straripamenti, mentre il popolo stesso rifiutava il sacro Mandato Celeste del più potente tra gli uomini, instaurando regimi paralleli e sempre più gravi ribellioni. E mentre il popolo soffriva, facendo eco alle loro richieste d’aiuto, la terra scelse proprio quel momento per mettersi a tremare: dal momento in cui la versione riformata dell’impianto regnante fu spostata presso la nuova capitale di Luoyang nel 23 d.C, fino all’inizio del successivo periodo dei Tre Regni nel 220 d.C, si hanno notizie di almeno 33 gravi terremoti, alcuni dei quali sufficientemente forti da causare danni ingenti e deviare persino il corso dei fiumi. Un susseguirsi di eventi, questo, che difficilmente poteva mancare di suscitare l’interesse e lo studio da parte di alcune delle menti più insigni del panorama pseudo-scientifico di allora. Personalità come Zhang Heng, il rinomato inventore e polimata che era stato allontanato dalla corte nel 123 d.C. per ordine dello stesso imperatore An, suo precedente mecenate, a causa di alcune divergenze in materia della riforma dei calendari in corso di elaborazione, che nell’opinione del sapiente avrebbe causato delle discrepanze cronologiche difficili da compensare. Durante il regno immediatamente successivo di Shun, figlio di An, ritroviamo quindi costui con l’incarico di astronomo di stato, e una paga di appena 600 staia di riso, quello che avremmo potuto definire il minimo sindacale (se fossero esistiti i sindacati) per un rango attribuito dallo stesso sovrano. Così lui, letterato e poeta di fama, mentre coltivava le arti umanistiche non smise mai di elaborare concetti tecnici ed invenzioni che potrebbero permettere, a noi italiani, di paragonarlo ad una sorta di prototipico Leonardo da Vinci: un nuovo tipo di clessidra con la sabbia pressurizzata, il modello della sfera celeste fatto funzionare ad acqua e poi quella che sarebbe rimasta, senz’altro, la sua invenzione più celebre per i molti secoli a venire: una sorta di giara, secondo gli storici odierni di bronzo o altri metalli, decorata con otto figure di piccoli draghi e al di sotto, riproduzioni a dimensione reale di rane.
Per comprendere l’accoglienza che un simile oggetto avrebbe avuto alla sua epoca, occorre immaginare lo scenario dell’intera corte Han riunita, per accogliere i rapporti degli ufficiali periferici ed i loro rappresentanti, mentre ciascuno, a turno, si alzava per camminare tra i suoi colleghi seduti sul pavimento, e andare a prostrarsi dinnanzi allo scranno imperiale, i consiglieri e la figura dello stesso Shun. Sappiamo che era il 132 d.C. e ci è giunta notizia anche di come purtroppo, in un primo momento, il supremo regnante non accolse positivamente la nuova invenzione del matematico, un tempo tenuto in grande considerazione dal suo padre e predecessore. Il problema è che nel corso di queste due successive generazioni di regnanti, la voce popolare secondo cui era iniziata la spirale discendente della lunga serie degli Han si era fatta sempre più insistente, e secondo l’etica cinese di origini confuciane e taoiste, parlare di disastri contingenti era lo stesso che annunciare la pendente fine della dinastia. L’oggetto fu dunque subito accantonato, assieme agli altri tesori tenuti a corte, e secondo alcune versioni del racconto, addirittura il suo inventore imprigionato, affinché non diffondesse ai quattro venti il supposto demerito della corte imperiale. La principale testimonianza giunta fino a noi dell’intera vicenda, il libro sulla fine degli Han (scritto a posteriori nel V secolo da Fan Ye) racconta tuttavia che ad un certo punto nelle vaste sale del palazzo di Luoyang risuonò un tonfo metallico. E che quando il sovrano si recò a controllare, trovò la scena più strana: uno dei draghi del recipiente di Zhang Heng aveva aperto la bocca, e la sfera di bronzo che si trovava all’interno era caduta, finendo dritta tra le fauci spalancate della rana corrispondente. “Ma questo non dovrebbe significare che…” Mormorò tra se e se il non-così-saggio governante, quindi smise di dedicare il suo tempo prezioso all’idea. Trascorsi alcuni giorni, tuttavia, giunse un messaggero ad annunciare l’impossibile verità: un grave terremoto aveva scosso la regione di Longxi ad occidente, ovvero l’esatta direzione indicata dal drago che aveva compiuto il suo gesto. Così Zhang venne liberato e, da quel giorno, ebbe di nuovo accesso a uno stipendio commisurato alle sue competenze e capacità. Il segreto del suo sismoscopio (che non è un sismografo, in quanto incapace di registrare gli eventi sismici) venne tramandato più o meno intatto attraverso le Ere…

Questo sismoscopio è stato definito anche “banderuola dei terremoti” per la sua rassomiglianza concettuale al classico gallo segnavento montato sui tetti di numerosi contesti geografici e culturali. Un’analogia più che mai appropriata, quando si considera le credenze in materia tellurica elaborate dal suo inventore.

L’idea che un oggetto tanto stravagante ed insolito, vagamente rassomigliante ai bronzi rituali della Cina arcaica, potesse avere un effettivo scopo scientifico può apparirci inusuale, ma occorre ricordare che dopo tutto, stiamo parlando di un’epoca coéva alla tarda civiltà dell’antica Grecia. Quando, nel contesto occidentale distante vigevano ancora le nozioni elaborate svariati secoli prima da figure come Anassagora o Aristotele, che credevano rispettivamente all’origine dei sommovimenti tellurici per l’effetto delle infiltrazioni d’acqua nelle vaste cavità terrestri il primo, mentre per gli pneuma, o vapori incorporei, fatti evaporare dalla forza del Sole, il secondo. E il pensiero di Zhang Heng, all’altro lato del globo, era in qualche maniera prossimo al secondo di quelli citati, benché ancora differente: egli credeva infatti fermamente che la causa di tutte le scosse fossero i movimenti del vento, massima espressione del movimento e della forza della Natura. Il che soprassedeva l’antica teoria, contenuta nel libro degli esagrammi dell’Yjing, secondo cui derivassero da uno sbilanciamento dei due principi cosmici dello Yin e Yang, dovuta agli atti efferati commessi dagli uomini più potenti. Una volta compresa finalmente l’affermazione, quest’ultima piacque in maniera particolare all’imperatore Shun, che tuttavia non attribuì mai il ragno prestigioso e remunerativo di storico di corte all’inventore, forse per rispetto verso il disaccordo intercorso col suo genitore. Oppure si trattò dei nuovi scontri politici con gli eunuchi di corte, una casta che in quell’epoca stava acquisendo sempre maggior potere, risultando particolarmente ostile a tutti coloro che intendevano mantenere un filo privilegiato di comunicazione diretta con il sovrano.
E per quanto concerne un’interpretazione moderna del mistico strumento, non possiamo fare a meno di chiederci: avrebbe funzionato? Questo dipende, in massima parte, dall’interpretazione che abbiamo intenzione di darne. Sappiamo sicuramente, tanto per cominciare, che il tipo di meccanismo necessario a regolare l’apertura della bocca del drago faceva parte dell’ampio catalogo delle tecnologie note alla dinastia degli Han, che ne facevano uso, ad esempio, per le loro temute balestre, non ancora a ripetizione. La rinomata chu-ko-nu sarebbe infatti arrivata soltanto mezzo secolo dopo, ad opera di un’altra figura simile a quella di Zhang, il grande stratega ed inventore del turbolento periodo successivo all’inevitabile caduta della dinastia Han, Zhuge Liang. All’interno del sismoscopio, dunque, avrebbe dovuto trovarsi una sorta di pendolo a movimento libero il quale, muovendosi trasversalmente per effetto delle onde telluriche alfa e beta (ed ignorando qualsiasi sommovimento verticale causato dalle attività umane) si sarebbe mosso fino al meccanismo di attivazione del drago corrispondente tra le otto direzioni previste, facendo cadere la sfera corretta per effettuare il rilevamento. La natura di questo pendolo, tuttavia, è oggetto di discussioni da tempo: si ritiene in effetti difficile che un tale componente, iniziando la sua oscillazione, avrebbe potuto evitare di azionare anche il drago nella posizione opposta, facendo quindi cadere non una, bensì due sfere. Chiunque non avesse assistito direttamente all’ordine del rilascio, dunque, avrebbe avuto grandi difficoltà a comprendere la direzione di provenienza del terremoto.
Nel campo dell’archeologia sperimentale contemporanea, numerosi modelli del sismoscopio di Zhang sono stati costruiti, nelle dimensioni e con i materiali più diversi. Il più famoso resta, probabilmente, quello del 1936 di Wang Zhenduo, basato su un pendolo sospeso, alto più di un metro e mezzo ed oggi custodito presso il Museo Nazionale della Storia della Cina, sul lato est di piazza Tiananmen, a Pechino. Nel 1963 poi, lo studioso ne realizzò un secondo, con un pendolo inverso dal funzionamento presumibilmente migliore, a causa della presenza di un meccanismo di smorzamento.

La versione dello strumento elaborata da Imamura e Hagiwara compare in questo breve documentario della China Central Television, come esempio dell’applicabilità moderna delle nozioni di antica sapienza. Un’interpretazione importante per un paese allineato sull’etica confuciana.

La soluzione più interessante, ed effettivamente utile, resta tuttavia quella dei sismologi giapponesi Akitsune Imamura e Hagiwara dell’Università di Tokyo, che nel 1939 costruirono una versione in cui il pendolo rilasciava con la sua prima oscillazione una sferetta rotolante, la quale attivava indipendentemente il meccanismo di rilascio della sua simile soprastante. In questo modo, le doppie rilevazioni sarebbero state del tutto impossibili. Non ci è tuttavia noto se tale soluzione si fosse, effettivamente, palesata nella mente fervida di Zhang Heng. Il quale, verso gli anni finali della sua vita, si dedico principalmente alla letteratura, elaborando alcuni componimenti che sarebbero stati considerati alla base di un intero genere letterario, lo shelun o “discorso ipotetico” con un interlocutore del tutto inesistente. Attraverso questo strumento di mediazione, quindi, egli non si fece troppi problemi nel criticare la corte degli Han prossima all’autodistruzione, come esemplificato dal celebre componimento in versi:

Coloro che conquistarono questa terra erano forti;
Chi la ereditò fu perseverante.
Quando un fiume è impetuoso, la sua acqua non si consuma.
Quando le radici sono profonde, non marciscono facilmente.
Da quel momento, mentre l’ostentazione e la stravaganza si diffondevano,
l’odore si fece aspro e più penetrante.

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