Le oscure voragini sul ciglio del Mar Morto

Ciò che è stato per sempre sarà, ma non perfettamente uguale. Tutto scorre e si modifica, cambia, esaurisce e ricrea la propria essenza primaria. Questo vuole la Natura. Ma vi sono cause contingenti che possono deviare il corso del destino. Accelerare o precipitare la situazione, cambiare le cose in un rapido flusso degli eventi. Raramente, questo accade per il meglio. Poiché è frutto, quasi sempre, delle azioni scriteriate dell’uomo. Il Mar Morto è quell’enorme lago (nonostante il nome) che si trova alla foce del fiume Giordano in Palestina. 605 Km quadrati d’acqua, con una profondità di fino a 298 metri, ovvero il punto più basso della Terra escluso il fondale degli oceani. E una densità salina talmente intensa (1,24 Kg a litro) che nessuna forma di vita, tranne microscopici organismi estremofili e alcune alghe, potrà sopravvivergli per più di qualche minuto. Morto, defunto e senza alcun proposito di ritornare. Perché mai dovrebbe? Eppure, in qualche modo, vivo. Poiché costituendo da tempo immemore, nonostante tutto, la più grande oasi di tutti i deserti, i fatti del passato si sono susseguiti tra queste rive, identificate nella bibbia come antico sito delle due città di Sodoma e Gomorra. Qui sorsero nei secoli luoghi di culto ebraici, cattolici e bizantini, e in seguito i crociati costruirono le loro fortezze. Nell’epoca moderna, grazie agli impianti di desalinizzazione e depurazione, quest’acqua è possibile persino berla, ponendola alla base di un certo numero di comunità isolate, per lo più kibbutz agricoli per una popolazione complessiva di non oltre 1.000, 1.500 persone. Uno stato delle cose proficuo, per più di qualche verso, che tuttavia potrebbe esaurirsi nel giro di un paio di generazioni o giù di lì. Ed è la specifica maniera in cui questo sta per succedere, ad assumere un aspetto niente meno che terrificante.
Giugno del 2016, la scena: uno dei molti resort turistici di Mineral Beach, nei terreni di proprietà della comunità ebraica di Mitzpe Shalem. Un luogo molto apprezzato dai turisti, che vi soggiornano alla ricerca delle leggendarie proprietà curative dell’acqua super-salata di queste coste, o semplicemente dell’esperienza unica di stare a galla senza la benché minima fatica (si narra che l’imperatore Vespasiano avesse fatto gettare degli schiavi in catene nel Mar Morto, e neppure loro fossero affondati). Una tranquilla mattina d’inizio estate se non che, all’improvviso, nel parcheggio dell’hotel risuona un cavernoso boato. Fortunatamente, in quel momento nessuno si trovava in quella precisa zona. Per fortuna dico, perché, nel giro di pochi secondi, nel duro asfalto del piazzale inizia a formarsi una crepa, che progressivamente si allarga con velocità incrementale, fino a lasciar intravedere le viscere stesse della terra. Come colpito da un terremoto, l’edificio resta scosso, quindi s’inclina su un fianco. Accanto ad esso, ora, sembra trovarsi un portale d’accesso diretto alle profondità dell’Inferno. Cosa è successo? Si è aperto un sinkhole, come viene chiamato internazionalmente, o se vogliamo usare il termine tecnico, abbiamo assistito in diretta alla formazione di una dolina. Il più tipico dei fenomeni del carsismo, per cui l’erosione ed il moto sotterraneo dell’acqua, a distanza di decine di millenni, ricava grotte o pertugi, che talvolta giungono fino alla superficie. Ma l’effettivo dipanarsi dell’evento geologico, in effetti, ha un’origine particolarmente indicativa del luogo in cui ci troviamo. Poiché nasce in effetti dal sale. O per meglio dire, dall’assenza di esso, a seguito di una sfortunata catena di eventi.
La questione, come al solito, è particolarmente sfortunata. E non risolvibile sull’immediato. Nel corso degli ultimi 100 anni, ma in particolare a seguito della seconda guerra mondiale, l’industrializzazione più o meno corposa di Giordania, Palestina ed Israele ha portato alla nascita di un nuovo tipo di strutture, responsabili di uno sfruttamento idrico ingente. Bacini di evaporazione, sanzionati dai diversi governi, raccolgono enormi quantità d’acqua, per estrarne sostanze come il potash (sale di potassio) e il magnesio. Sulla Riva Ovest, nel frattempo, un massiccio sistema di irrigazione preleva l’acqua per distribuirla ai centri urbanizzati e alle coltivazioni agricole dei dintorni. Il risultato, come potrete facilmente immaginare, è un continuo stato di recessione del Mare, con il livello delle rive in diminuzione di circa un metro l’anno (immaginate voi la quantità d’acqua, per un bacino talmente grande). Ma se questo fosse l’unico problema, poco male: in futuro sarebbe sempre possibile chiudere i rubinetti e sperare in una ripresa del fiume Giordano. No, la problematica è molto più immediata e preoccupante.

Dove ce n’è uno, ce ne sono migliaia. Grazie a questa possibile ripresa via drone, è possibile osservare come il fenomeno dei sinkholes del Mar Morto non sia certo limitato a specifiche regioni isolate, coinvolgendo piuttosto l’intera area geografica circostante.

Sono ormai anni, che i già citati resort allungano i loro pontili ed aggiungono ombrelloni su “spiagge” sempre più ampie. Ma vi sono casi, come quello di Mitzpe Shalem, in cui non è semplicemente possibile farlo. Il numero di questi luoghi è in aumento: si stima che la quantità di doline apertasi almeno a partire dal 1980, data della prima osservazione scientifica, superi di gran lunga le 5.000. Miracolosamente, fin’ora non ci sono state vittime, ma tra le altre strutture danneggiate e rese inutilizzate dal ripetersi di un episodio geologico di pochi secondi figurano un ponte da 55 milioni di dollari nei pressi di Nahal Arugot, diversi importanti tratti di autostrada, una piantagione di datteri e intere spiagge attrezzate per la singola attività economicamente più importante della regione, il turismo. Si tratta tra l’altro di un fenomeno in continuo aumento, che presto potrebbe minacciare le stesse comunità dei kibbutz. La ragione di tutto questo va ricercata nella natura stessa del sottosuolo, occupato nel presente caso non soltanto dai tipici minerali evaporitici delle regioni desertiche, bensì da una speciale tipologia di concentrazioni saline, talmente dense da occupare lo spazio equivalente di una caverna. Con il progressivo ritrarsi delle acque salate, quindi, quello che accade è che infiltrazioni piovane ed altro liquido proveniente dalle montagne, penetrando nelle profondità della terra, si propaghino fino ai depositi in questione, sciogliendo e trascinando via il sale. Vi rendete conto di che cosa stiamo parlando, adesso? Diversi metri cubi di vuoto, sotto le incalcolabili tonnellate della superficie stessa del globo, che inevitabilmente crollano per effetto della forza di gravità. E questo può avvenire dovunque, in qualunque momento, senza alcun briciolo di preavviso. Le coste del Mar Morto, allo stato attuale dei fatti, sono costellate di cartelli che invitano a fare attenzione, mentre intere spiagge un tempo particolarmente amate, oggi sono completamente chiuse al pubblico. Troppo grande è stato giudicato il rischio di creazioni di voragini potenzialmente letali. Alcune sono grandi come un campo da basket. Altre sono profonde l’equivalente di un palazzo di cinque piani.
Eppure, strano a dirsi, non c’è molto che i governi limitrofi abbiano iniziato a fare. Forse anche distratti dalla difficile condizione socio-politica di questa regione, ma anche abituati, ormai, a poter fare affidamento sul redditizio sfruttamento industriale ed idrico del vasto Mare, anch’esso alla base di un profitto importante. Diverse associazioni ambientaliste sono state formate, con la specifica finalità di sensibilizzare i politici al problema, senza generalmente ottenere gran ché, sopratutto sul breve e medio termine. Soltanto promesse, promesse… Un problema particolarmente sentito da Eli Raz, geologo veterano del kibbutz di Ein Gedi (l’avete già visto nel video di apertura) largamente considerato la massima autorità scientifica in materia di sinkholes del Mar Morto. Il quale, avendoli studiati per oltre 30 anni, ha ormai un’idea molto chiara di quale sia la situazione corrente, ed il futuro di questa zona geografica unica al mondo. Con “È la fine” in parole povere, potremmo parafrasare il suo pensiero.

Un soffitto frastagliato, un cappello gettato a terra, una macchia di sangue. L’oscurità che avanza nient’altro che i propri pensieri, per distrarsi dal crudele attimo della fine.

Dieci anni fa, in maniera del tutto imprevista, gli capitò il fenomeno che avrebbe messo in maggior pericolo la sua vita. Raz si trovava nei dintorni di Ein Gedi, in un’area che stava misurando per la sua pluri-decennale ricerca, quando all’improvviso con un boato, comparve una dolina direttamente sotto i suoi piedi. Così repentino fu l’accadimento che non ci fu nulla che persino lui, con tutta la sua esperienza e prontezza, potesse fare per evitare di caderci dentro. Seguì un’esperienza di 14 ore in cui lui, rimasto prigioniero del baratro, per sua fortuna incastrato a mezza altezza, respirava faticosamente per quello che era sicuro sarebbe stato il suo ultimo giorno di vita. Egli provò a più riprese ad usare il cellulare, che non aveva ricezione. Poi scavò nella sabbia, e artiglio la pietra, nel tentativo di risalire in superficie. Fino a disperarsi. A quel punto, disidratato e allo stremo delle forze, scrisse una lettera con le sue ultime volontà alla famiglia, utilizzando un rotolo di carta igienica facente parte della dotazione del suo zaino. Fatta la pace con Dio e col mondo, quindi, si preparò a morire. Ma fu allora che i suoi stessi studenti del kibbutz, addestrati a rilevare irregolarità nel paesaggio, compresero dove fosse finito lo scienziato, e calandosi con cautela, riuscirono a trarlo in salvo. Da quel giorno, ancor più di prima, Eli Raz giurò a se stesso che avrebbe fatto il possibile per sensibilizzare i governi al pericolo che corre l’intera regione del Mar Morto. Una missione che resta, purtroppo, tutt’ora incompleta.
Che ne sarà, dunque, del domani? La più vertiginosa teoria è un progetto di cui si parla addirittura dal 1899, quando l’ingegnere tedesco Abraham Bourcart aveva proposto di costruire un ciclopico canale che collegasse il Mar Rosso al Mar Morto, permettendo così un afflusso e reintegro delle acque, già sofferenti. Un’ipotesi, incredibilmente, ripresa nel summit della Terra del 2002, e che oggi sembra suscitare più di qualche interesse sia in Palestina che ad Israele. Ma un simile sforzo congiunto, ovviamente, richiederebbe come primo passo il ripristino di un’ordine socio-politico che purtroppo, qui non vige da molte generazioni. Non mancano, inoltre, i detrattori dell’idea: un simile afflusso di normale acqua marina in quella super-satura del Mar Morto, dopo tutto, non è stato mai azzardato, e nessuno sa realmente che cosa potrebbe succedere per quanto concerne il fenomeno dei sinkholes. Per quanto ne sappiamo, la situazione potrebbe persino peggiorare. Eli Raz, tra i più cauti in merito, ha dichiarato: “Loro [i politici] preferirebbero di gran lunga tagliare il nastro su un’opera grandiosa, piuttosto che riprogettare il bagno di casa per il riutilizzo delle acque grige.” Proprio così: sembra un problema comune a molti contesti geografici e culturali. Si potrebbe persino affermare che sia un’istinto contrario, ed equivalente, a quello necessario per la nostra sopravvivenza.

Lascia un commento