Il cactus che protegge le linci dall’assalto dei puma

Avete mai sentito il detto: “Quando hai abbastanza fame, anche X sembra un banchetto degno di un re?” Anche un cracker non salato. Persino una cavalletta ricoperta di cioccolata. Oppure: “Se sei abbastanza in ritardo, anche il caffè della macchinetta si trasforma in un espresso del bar.” E i semafori diventano un mero suggerimento. In merito a questo: sono piuttosto puntuale. Quindi non saprei dire… E a proposito, vi sarà certamente capitato, in mezzo al catalogo dei vostri giorni, di essere inseguiti da un grosso felino affamato. Nella pianura del Serengeti, nel profondo dell’Africa Nera, è piuttosto facile stabilire in tal caso un preciso piano d’azione: si corre verso il più vicino baobab, e ci si arrampica su. Il grande albero “padre di molti semi” (in arabo būħibāb) che ha una forma tozza e bombata, con un tronco talvolta liscio, talvolta nodoso. Naturalmente, la seconda ipotesi è preferibile, ma come si dice: “Quando il leone inizia a correre, tutto può sembrarti una scala.” Immaginate però adesso di esservi trovati, piuttosto, nel bel mezzo di un grosso deserto americano, diciamo per esempio quello di Sonora. E diciamo, sempre per dare corso alla nostra ipotesi, che il gattone degl’incubi sia stato piuttosto un diverso tipo di leone, si… Di montagna. Dìcesi comunemente: il puma. Magari mentre eravate in visita dalle parti del Golden Canyon nella contea di Pinal, Stati Uniti d’America, Arizona. All’ombra delle montagne di Superstitions dove un tempo, si andavano a perdere i cercatori d’oro. Ora, con la potenziale esclusione del campo da golf locale, non stiamo esattamente parlando di un luogo ricco di vegetazione ad alto fusto, o magari persino baobab. Dunque dovreste iniziare a correre verso l’orizzonte col predatore incollato ai calcagni. Finché, sempre più prossimi allo sfinimento, non avreste visto apparire dinnanzi una piccola cupola verdeggiante, dai molteplici spuntoni sporgenti, affilati come altrettanti coltelli. Col passare dei secondi, gradualmente, sarebbe comparsa la verità: si trattava di un arbusto, ovvero una pianta alta 12-15 metri. Ma anche di un cactus, il crudele saguaro.
Carnegiea gigantea…” gridereste a quel punto: “…Salvami, tu. Meow.” Dimenticavo il dettaglio fondamentale: in questo scenario, voi siete una lince. Bob la lince, per essere più precisi, il famoso animale che nel 2011, per un caso sfortunato aveva finito per sconfinare nel territorio del suo cugino più grosso e arrabbiato. Con in più il valore aggiunto che il coguaro in questione, per un caso malaugurato del destino, aveva anche fatto i cuccioli al séguito, vulnerabili, graziosi batuffoli di pelo. Tanto che fin dalle primissime battute dell’inseguimento, apparve chiaro che se Bob non avesse trovato una soluzione, sarebbe finita piuttosto male. Ma la via di scampo, per sua fortuna, c’era. Fu allora, grosso modo, che un amico direttore d’azienda chiamò il pensionato Curt Fonger, fotografo della natura, gridando nel microfono un qualcosa sulla falsariga di: “[…] Vieni subito, non perdere tempo! C’è una lince salìta, una lince salìta sul muro spinoso.” A quel punto, Mr. Fonger lasciò a metà quello che stava facendo. Non ci è dato di sapere, in effetti, quanto ci mise a raggiungere la fantastica scena (era il 2011) anche perché a dire il vero, non avrebbe fatto nessuna differenza. L’animale sarebbe rimasto lì per un periodo di sei ore. Forse perché spaventato dall’ipotesi che il puma potesse tornare, oppure semplicemente comoda, su una posizione del tutto inusitata ma che per qualche ragione, a lui piaceva. Dal punto di vista scientifico, non è affatto impossibile. Il peso medio di una lince nordamericana si aggira sui 10 Kg, mentre le spine del saguaro, per quanto acuminate, hanno una caratteristica: sono fissate in maniera piuttosto solida al tronco. Il che significa che, anche pungendosi, queste non resteranno conficcate nella pelle, tanto più quando il malcapitato è un quadrupede coi polpastrelli induriti dalla ruvidità e il calore del deserto. Dalla felice congiunzione dei due fattori, dunque, non è difficile immaginare uno stato del fuggitivo simile a quello del fachiro sul letto di chiodi: una singola punta, penetra la pelle. Ma molte in parallelo, diventano una sorta di stravagante sostegno. Tutto questo avrebbe funzionato molto meno bene con il puma (benché anch’esso sia notoriamente in grado di compiere l’impresa) così almeno in quel caso, il genitore apprensivo si prese i cuccioli, e intraprese il suo ritorno verso la regione montuosa da cui era provenuto. Al termine della giornata, dopo aver documentato l’intera faccenda per i posteri senza volto, Mr Fonger fece il suo ritorno alla base del saguaro, per verificare quanto fosse stata difficile la fuga di Bob la lince. Non un singolo pelo, neppure una goccia di sangue, rimaneva a testimonianza del suo passaggio. Considerate le premesse…

Raro, ma non unico. Ecco un video della Associated Press, anch’esso risalente al 2011, in cui un comune gatto domestico si era arrampicato sul cactus saguaro. A quanto ci è dato di sapere, l’animale sarebbe rimasto lassù per “giorni” senza mangiare né bere. Chissà se ad inseguirlo, stavolta, era stata una lince…

Predatori e prede, pericoli, il senso opprimente del peso del fato. Quando i primi coloni cristiani attraversarono la valle del fiume di Gila, incontrandosi con i nativi delle popolazioni Tohono O’odham e le tribù nomadi degli Apache, ben presto scoprirono che la principale qualità nascosta di questi luoghi. Oro, migliaia di tonnellate del favoloso metallo, nascosto da tempo immemore all’interno delle vene sfolgoranti del sottosuolo. Così nacque, nel 1867, la città di Phoenix, ben presto seguìta dalle comunità satellitari di Tortilla Flats, Superior e per l’appunto, Gold Canyon. Il cui nome aveva un’origine, in realtà, più specifica di quanto si possa tendere a pensare. Secondo una leggenda infatti, qui giunse dalla Germania soltanto tre anni dopo un cercatore d’oro di nome Jacob Waltz, che la gente del posto, erroneamente, ritenne subito essere un olandese. Avvenne così che durante le sue peregrinazioni, questo frainteso individuo si fosse imbattuto in un giovane membro della famiglia messicana dei Peralta, che si era trovato in terribile difficoltà. Che cosa gli era successo? Non è riportato. Forse si era arrampicato su un cactus, perché inseguito da un puma. Fatto sta che l’europeo, aiutandolo a rimettersi in sesto, ricevette da lui il più munifico dei regali: pare infatti che i Peralta, prima della guerra tra Stati Uniti e Messico del 1846-48, avessero scavato una miniera d’oro dallo straordinario successo. La quale, al momento di fuggire, era stata chiusa con un macigno, senza annotare in alcun luogo la sua posizione. Ma ora che il messicano aveva ritrovato un futuro grazie al suo nuovo amico straniero, i beni materiali gli apparvero improvvisamente privi di alcun valore. E in un impeto di generosità, decise di trasferire il segreto.
Questa vicenda è riportata nell’autobiografia hippie “Fight the Power” di Eric Leif Davin, il quale ipotizza anche che il tedesco, nei fatti, avesse semplicemente trovato la miniera per caso ed ucciso i suoi proprietari messicani. Ma questo fa una differenza sorprendentemente piccola, ai fini del nostro racconto. Il punto è che nelle montagne di Superstitions (nome tutt’altro che casuale) da quel giorno, iniziarono ad apparire qui e là i segni dell’oro. Sui margini delle montagne, nel riflesso del Sole sulle pozzanghere. Sopra le rocce illuminate dal fuoco del tramonto. Ed anche, secondo una diceria riportata dallo stesso fotografo della lince Curt Fonger durante un’intervista in Tv, sul cucuzzolo dei cactus saguaro. Il che potrebbe essere inteso anche in senso metaforico e del resto, avete notato il colore del pelo dell’animale?

Anche il picchio di Gila sale tranquillamente sul cactus, incurante delle sue spine. Quasi per sfregio, ogni anno costruisce un nido diverso, costellando la pianta di buchi. Buchi che in seguito, vengono occupati da uccelli diversi.

Attraverso il percorso dei secoli, la convivenza tra i Tohono e gli Apache non fu mai pacifica, esattamente come quella delle linci coi puma. Ma entrambi i popoli, almeno, si trovavano d’accordo su un fatto: che il cactus saguaro era sacro, e in quanto tale, andava onorato e trattato con un senso di profondo rispetto. Questi possenti vegetali, che impiegavano anche 75 anni per crescere fino alla prima biforcazione, arrivando a viverne 150 anni, erano una fonte importante di cibo, grazie ai loro frutti rossi che venivano mangiati per il puro sostentamento e impiegati durante diversi rituali religiosi. Verso il mese di giugno, le tribù degli Apache erano solite stabilirsi nel territorio di queste piante, creando notevoli attriti con i loro vicini stanziali, che erano soliti usare parti del cactus, miste a fango, per costruire le loro case. O anche recinzioni, trappole per animali, frecce per andare a caccia. Il picchio di Gila (Melanerpes uropygialis) è solito praticare dei fori nella carne tenera della pianta all’interno dei quali costruisce quindi il suo nido. La pianta quindi, guarendo la ferita, crea delle vere e proprie sacche impermeabili, che i nativi utilizzavano come borracce o recipienti per il cibo (un’altra abitudine di questo uccello è quella di bucare il cranio dei pulcini di colombi, per succhiarne il gustoso cervello. Ma questo resta, forse, troppo macabro da approfondire…) In ultima analisi: proteggi il cactus e un giorno, quello potrebbe salvarti la vita. Come successo a Bob la lince, eroe nazionale.
Non tutti hanno invece considerato, come l’alternativa diametralmente opposta possa dimostrarsi altrettanto vera. Indicativo resta il caso dell’aspirante cowboy David Grundman, che nel 1982 si stava cimentando nella nota attività vandalica statunitense del “cactus plugging” consistente nel caricare un potente fucile, e quindi scaricarlo contro la maestosa pianta, finché questa non finisca letteralmente tagliata a metà. Caso malcapitato in cui, per un vezzo dello stesso deserto privo di voce, il tronco spinoso cadde si, ma di lato. Finendo per schiacciare il suo stesso torturatore. Che perì in questo modo, trafitto da un milione di spine, spinte a fondo dal tronco di 230 Kg. Riuscite ad immaginare un destino più orribile? Più orribilmente meritato? Lo stesso puma, osservando la scena, avrebbe scrollato le spalle pelose. Poi con un ringhio sommesso, avrebbe iniziato a mangiare.

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