Pescatore assiste all’ecatombe dei pesci texani

Una delle immagini più shockanti e terribili del mare, spesso condannata anche dai non ecologisti, è il periodico ripetersi di un’usanza, comune alle isole Faroe tra Inghilterra e Norvegia ed al Giappone della città di Taiji. Quel momento in cui il mare si tinge di rosso, mentre le rispettive popolazioni si radunano sulla spiaggia, facendo strage di grandi quantità di balene pilota, nel primo caso, e per lo più delfini nel secondo. Animali particolarmente in grado di suscitare lo sdegno del grande pubblico, perché considerati simili a noi, intelligenti, dalla vita relativamente lunga e con la capacità di comprendere a pieno la loro triste condizione. Nonché soprattutto, si presume, in grado di soffrire in maniera piuttosto intensa. È il realizzarsi di una visione tanto truculenta da essere oggettivamente difficile da razionalizzare, anche volendo accettare l’importanza delle tradizioni marittime e l’effettiva sostenibilità di simili iniziative. Mentre il resto nel mondo globalizzato, dal canto suo, non trovando simili orpelli abbinati al proprio concetto di civilizzazione, guarda in entrambe direzioni con sdegno e non senza una certa dose di auto-compiacimento, nella presa di coscienza dell propria maggiore attenzione alla cosa naturale. Il che appare del tutto vero, finché non si assiste a fenomeni come questo: un uomo, noto come The Fish Whisperer (Colui che sussurra ai pesci) impugna la telecamera presso la foce del Colorado River, nell’estremo meridione del Texas, dove una sottile striscia di terra separa un braccio di mare dal resto del golfo del Messico, creando una sorta di vasta piscina, nota col nome di baia di Matagorda. In cui alcuni canali costruiti e gestiti dall’uomo permettono alle imbarcazioni di navigare verso l’entroterra. Le quali talvolta, è inevitabile, vengono seguite da una certa quantità di pesci, che ormai da tempo hanno qui ricreato il proprio habitat ideale. Menhaden del Golfo per essere più precisi (Brevoortia patronus) animali non particolarmente rari, speciali o preziosi da un punto di vista dell’economia, appartenenti alla stessa famiglia delle aringhe. Ma semplicemente fondamentali per la catena alimentare oceanica, poiché costituiscono uno dei pochi anelli tra il plankton e molte forme di vita più sofisticate, come pesci persici, squali, balene ed uccelli pescatori. Tanto più grave appare dunque questo improvviso evento, in cui migliaia, per non dire milioni di questi esseri, tutto d’un tratto, si sono ritrovati a morire accumulandosi ai lati del canale, lasciando il nostro autore del video letteralmente senza parole. E cosa potrebbe mai dire, dinnanzi ad uno degli episodi di annientamento collettivo più totali ed imprevedibili del pianeta? Non è la prima volta che questo succede: ci sono almeno altri due casi registrati, nel 1995 e nel 2005. Ogni 10 anni, all’incirca, ogni singolo nuotatore del canale sembra passare istantaneamente a miglior vita, senza ragioni palesi ed evidenti. Non si tratta per niente, ad esempio, del rilascio improvviso di sostanze velenifere ad opera di qualche impianto industriale. Ma di un qualcosa di molto più indiretto…
È un fatto largamente noto, ma poco regolarmente approfondito, che i pesci abbiano effettivamente bisogno di respirare ossigeno, proprio come noi esseri di superficie. Le branchie non li esonerano da tale necessità, permettendogli piuttosto di effettuare la separazione delle molecole ad un livello cellulare, metabolizzando l’acqua invece di limitarsi a berla. Il che significa, incidentalmente, che il contenuto di quest’ultima deve essere sufficientemente adatto ad una simile operazione. E non è sempre, ne automaticamente così, come ampiamente esemplificato dall’esistenza dell’apparato di aerazione (o bubbler) per gli acquari, che si occupa di pompare in esso una quantità adeguata d’aria. Ora quando l’acqua è stagnante, o eccessivamente piena di pinnuti abitanti, può succedere che l’ossigeno finisca per esaurirsi. E che tutti i pesci, nessuno escluso, muoiano soffocato. Benché a dire il vero, questo non è l’unico fattore a pesare sul disastro di Matagorda Bay. Poiché a dare il colpo di grazia ci ha pensato, in effetti, un’improvvisa e incontrollabile fioritura di alghe, come i cianobatteri, i dinoflagellati, i coccolitofori e le diatomee. E sebbene possa sembrare strano che organismi in grado di produrre e riciclare l’aria respirabile, in ultima analisi, siano proprio la causa dell’evento, occorre anche considerare con il loro arrivo la formazione conseguente di substrato, privo di luce e quindi fotosintesi, in cui l’ossigeno semplicemente cessa di arrivare. E volete sapere la causa di tutto questo? Praticamente ovvio: l’uomo.

La baia di Matagorda è un luogo piuttosto brullo e privo di particolari attrattive naturali, se si esclude la vista priva di ostacoli in qualsivoglia direzione. Oltre quei vasti orizzonti, tuttavia, si trova l’oceano aperto, dove ha avuto origine la maggior parte della vita terrestre.

L’esistenza della cosiddette zone morte, ovvero regioni soggette ad improvvisi cali d’ossigeno esiziali, è un problema che sta preoccupando gli ecologi ormai da generazioni. Ve ne sono in diversi continenti, con alcuni dei casi più celebri spesso citati qui, nel Golfo del Messico, in Virginia, nell’Oregon e presso ampie regioni del Mar Baltico, al confine col Mare del Nord. L’origine del disastro va ricercata, generalmente, in un’intensa attività agricola nelle regioni costiere antistanti, che porta alla liberazione di fertilizzanti ricchi di nitrogeno nel corso dei fiumi. I quali, una volta giunti alla foce, diventano la fortuna delle alghe e conseguentemente, la sfortuna dei pesci e gli altri esseri del mare. All’origine di ogni episodio di ipossia ittica di massa, generalmente, c’è un periodo di grande fioritura e prosperità, fino al formarsi della stratificazione sopra citata e quindi, al conseguente consumo dell’ossigeno presente nell’acqua. Ed a quel punto, generalmente, è già troppo tardi: i pesci perdono le forze gradualmente e restano storditi, diventando incapaci di fuggire in acque più salubri. Mentre tutte le creature del fondale, come gamberi ed aragoste, non possono semplicemente fuggire via abbastanza rapide da evitare il soffocamento. Una volta che una zona morta si palesa in una regione marittima, dunque, essa tenderà a ripresentarsi a distanza di tempo, causando l’annientamento reiterato delle eventuali nuove generazioni. Non si tratta, tuttavia, di un fenomeno irreversibile, come esemplificato dal caso del Mar Nero, presso cui la dissoluzione dell’Unione Sovietica, ed il successivo periodo di povertà, hanno ridotto drasticamente l’impiego di fertilizzanti, causando la progressiva riduzione ed infine, la completa scomparsa della zona morta. L’inarrestabile marcia del progresso tuttavia, e paradossalmente anche lo sforzo collettivo a vantaggio percepito dell’ecologia, tendono a dirigersi nella direzione opposta. Come nel caso dell’Atto sull’Indipendenza e la Sicurezza Ecologica del 2007, che aveva decretato che negli Stati Uniti si giungessero a produrre 15 milioni di galloni di bioetanolo a partire dal mais, riducendo così il consumo dei carburanti fossili. È stato tuttavia successivamente stimato come una riuscita applicazione della direttiva avrebbe portato ad un aumento drastico del nitrogeno da fertilizzanti liberato nel Golfo del Messico e altrove, con un conseguente espandersi delle zone morte di uno stimato 10-18%. Il che avrebbe portato, incidentalmente, alla drastica riduzione delle locali popolazioni dei manhaden.

Il Brevoortia patronus viene talvolta chiamato anche pesce-insetto, per la presenza di un parassita che abita nella sua bocca, quasi costantemente tenuta aperta durante il nuoto per facilitare la cattura dello zooplankton di cui si nutre.

Alla domanda del cosa effettivamente sia stato fatto, tuttavia, per agevolare la ripresa di questo ecosistema in difficoltà, non c’è una singola risposta risolutiva. A partire dal 2012, la Commissione di Stato della Pesca Atlantica ha determinato che il pesce stava venendo pescato in maniera superiore al normale, benché non fosse a rischio d’estinzione a causa della sua notevole capacità riproduttiva. La sua cattura ad opera della Omega Protein Inc, principale compagnia di pesca texana, è stata quindi limitata a “sole” 170.800 tonnellate annue, benché nulla sia stato fatto per limitare l’inquinamento dell’acqua con il nitrogeno derivante dall’agricoltura. Anche perché una simile iniziativa, probabilmente, sarebbe stata complessa dal punto di vista giurisdizionale. Si ritiene, tuttavia, che la situazione potrebbe ben presto cambiare. Anche perché il Manhaden, pur essendo appena commestibile, ha un’importanza fondamentale come fonte di mangime, fertilizzanti di origine animale (lo stesso nome del pesce allude, in lingua algonquina, a questa specifica funzione) olio ricco di omega-3 usato come integratore per determinate condizioni cliniche e per la produzione di cosmetici. Eventi drammatici come quello registrato dal Fish Whisperer, dunque, costituiscono una vertiginosa finestra su un possibile futuro privo di questa risorsa per la serenità finanziaria di molte realtà industrializzate locali. E non c’è niente, in effetti, che possa attivare altrettanto la coscienza pubblica verso la presa di misure in qualche modo risolutive. Ma il tempo a disposizione corre rapidamente verso l’esaurimento…
Certo, l’eccidio di un’ammasso di aringhe non colpirà la fantasia quanto l’annientamento truce di intere famigliole di grandi cetacei, in quel di Danimarca e Giappone. Si tratta, del resto, di animali ben più diversi da noi. Eppure ciò non ci rende, in alcun modo, meno responsabili della loro sopravvivenza. Benché molto, molto meno coscienti di essa. Il manhaden può essere classificato come una sorta di pilastro che sorregge l’intero ecosistema dell’Atlantico: finché resiste, ci saranno anche gli altri. E noi. Ma nel momento in cui, inevitabilmente, anch’egli verrà a mancare, allora sarà seriamente necessario fare un’analisi di coscienza. Tornando alla saggezza inutile del coccodrillo, con le sue lacrime simili a cristalli congelati, di epoche ormai trascorse ed ahimé, dimenticate.

Lascia un commento