Chi ha scavato gallerie preistoriche nel sottosuolo del Brasile?

Dalle mie parti esiste un detto: “Se scavi a Roma, troverai qualcosa.” È una massima cautelativa ma anche un dato di fato totalmente inevitabile, per chiunque intenda costruire fondamenta, ampliare metropolitane, edificare un centro commerciale. La storia moderna dell’Urbe è piena di episodi in cui i lavori per qualche struttura sono stati interrotti a causa della segnalazione obbligatoria in merita a qualche anfora, un antico mosaico, i resti non meglio definiti di una villa vecchia secoli o millenni, riaffiorata tra le erbacce a lato di una strada consolare. Ma sapete dove nessuno, mai e poi mai, si sarebbe assolutamente aspettato d’incontrare le vestigia d’epoche remote? A 40 Km da Porto Alegre, capitale dell’omonima microregione sudamericana, presso i sobborghi della cittadina da circa 240.000 abitanti di Novo Hamburgo. Situata ai due lati del fiume Rio dos Sinos, in una zona essenzialmente disabitata già da prima del XIX secolo, fatta eccezione per gli accampamenti temporanei di qualche tribù indigena di passaggio. Eppure, poco dopo il volgere dell’anno 2000, quello che il geologo Heinrich Frank vide dal finestrino della sua auto lanciata a gran velocità per puro caso, sarebbe bastato a scatenare la fantasia di qualunque scienziato: un foro nella roccia friabile sui fianchi di un colle, recentemente messo a nudo dal processo di preparazione di un cantiere. Con gli operai fermi a fare capannello, in prossimità di ruspe, bulldozer e altri motori temporaneamente sopiti. Qualcosa d’imprevisto. Qualcosa di strano. E d’inspiegabile apparentemente, per lo meno facendo affidamento ai normali processi tellurici facenti parte del nostro carnet pregresso. Abbastanza per parcheggiare il veicolo a lato della strada, precipitarsi giù dalla banchina e presentarsi, approfittando del momento di sorpresa dei padroni di casa al fine d’introdursi con la torcia d’ordinanza nell’oscurità. Scoprendo, al di là di un basso ingresso, questo cavernoso ambiente sotterraneo di 2 metri di altezza e quattro di larghezza, dal suo punto di vista di osservatore dei processi della Terra e solamente quelli, del tutto non naturale. E quel che è peggio, se vogliamo, chiari segni sulle pareti, inflitti da un qualcosa di stranamente simile ad artigli giganti. Ora, bisognerebbe effettivamente definire il significato di quel termine fondamentale per la filosofia dell’uomo. Poiché se è vero che l’istinto degli uccelli a costruire il nido non può essere definito essenzialmente come l’impiego di un processo tecnico, cosa dire allora delle scimmie del Borneo, che impiegano dei bastoncini per tirare fuori le formiche da sotto la corteccia degli alberi? O del corvo che nel corso di un esperimento, capisce d’impiegare un’attrezzo apposito come chiave d’accesso per tirarne fuori un altro, e via così, fino alla risoluzione del problema che potrà permettergli di guadagnarsi il cibo… Una volta attribuita a un simile processo la definizione di “naturale” diventa difficile negare che molti dei traguardi raggiunti dall’australopiteco, nostro progenitore del Pleistocene, rientrino a pieno titolo nella stessa sfera. E allora dove mai, potremo ancora tratteggiare la linea?
Fatto sta che quella galleria, come pure le molte altre circostanti ritrovate in seguito dal team dell’università di Rio Grande do Sul guidato dal Dr. Frank, qualcuno, o qualcosa, doveva pur averlo costruito. Come potenzialmente, una sorta di orso con gli artigli da formichiere, grosso all’incirca quanto un odierno elefante. Ovvero il Megatherium, bradipo gigante sudamericano, che visse e prosperò nella regione in quel selvaggio periodo terminato attorno ai 10.000 anni fa. “Ma come!” potreste esclamare a questo punto: “I bradipi non sono quelle placide creature che trascorrono la loro intera vita sugli alberi, muovendosi a malapena nel corso di un’intera giornata?” Esatto. Oggi, è proprio così. Ma c’è stata un’epoca in cui essi percorrevano la Terra, allungando il collo come una giraffa per guadagnarsi l’accesso alle foglie migliori. Senza disdegnare, occasionalmente, la cattura di una preda viva. Avevano un aspetto assolutamente TERRIFICANTE…

In breve tempo, entrambi i contendenti avrebbero scoperto che nessuna creatura poteva resistere allo sforzo concentrato di un gruppo di primati dal pelo a chiazze, armati di bastoni acuminati, asce e frecce con punta di selce.

Ora questi bradipi avevano un problema, che sostanzialmente era lo stesso dei nostri succitati progenitori: l’estrema diffusione, ed innegabile successo evolutivo, del macairodonte, più comunemente detta tigre dai denti a sciabola. Una creatura tanto agile, e possente, da riuscire a dominare come super-predatore tale epoca di una spropositata megafauna, balzando al collo dei giganti per recidergli le arterie con un solo, spietato morso. Immaginate voi la vita di un essere comparabilmente molto più pacifico, ed anche notevolmente forte, soggetto al costante pericolo di questo gatto indiavolato, con due coltelli inchiavardati alla mascella, che poteva comparire dalle ombre, per porre una fine lenta e orribile alla tua esistenza. Una condizione tale da inficiare la serenità di chiunque, portando alla ricerca di vie alternative alla sopravvivenza. Così, tutto quello che restava ai super bradipi era rivolgere le spalle al mondo della Luce. Ed iniziare, con tutta la loro energia implacabile, a scavare. Credo che sia facile, a questo punto, comprendere che cosa fosse essenzialmente il buco ritrovato dal geologo in prossimità di Novo Hamburgo: i resti, cristallizzati dal tempo, di quella che sarebbe stata nominata in lingua portoghese una paleotoca, ovvero “antica tana” scavata come valida fortezza dai terrorizzati Megatheria. Con l’arrivo del 2010, quindi, un altro geologo operativo nello stato brasiliano di Rondonia avrebbe fatto il suo ingresso ad occhi spalancati dentro un tunnel pleistocenico, sito questa volta quasi 2000 Km a nord-ovest di Novo Hamburgo, poco a nord del confine con la Bolivia. Questa volta si trattava di Amilcar Adamy, dell’ente geologico governativo CPRM. Confrontando i dati raccolti dai due scienziati, il mondo accademico locale non tardò ad elaborare una teoria. In merito al fatto che di paleotocas ancora visitabili dovessero esisterne a migliaia nel continente americano ed in verità, nel mondo intero. Soltanto che quasi nessuno, persino tra gli specialisti, sapeva esattamente cosa cercare. Una paleotoca completa nell’epoca della sua costruzione, in effetti, è stata ipotizzata assumere l’aspetto di un vero e proprio network di gallerie sotterranee interconnesse, che s’inoltrava nel sottosuolo per fino a 70-80 metri di profondità. Ma ciò che resta ancora visibile, al giorno d’oggi, è poco più di una caverna con strani segni sulle pareti. Trascurarne l’esistenza è una reale possibilità. Così come può capitare che persino quella cessi d’esistere, lasciando però un’impronta nella tradizione ed il folklore locale.
L’utente Rollie Nelson ad esempio, un commentatore dell’articolo sull’argomento presso Discover Magazine, cita una leggenda della sua tribù Nativa della California Settentrionale, gli Yurok, secondo cui un serpente acquatico di nome Kay’moss sarebbe vissuto nelle acque del lago Earl, in prossimità dell’estuario del fiume Klamath. La quale creatura, risultando in grado di spostarsi anche sulla terra ferma, avrebbe scavato gallerie sotterranee, dalle quali balzava fuori per uccidere le sue prede privilegiate, gli umani. E non è certo impossibile che tali pertugi, oggi nascosti agli occhi dei loro discendenti, altro non fossero che le tane di qualche effettivo animale misteriosamente sopravvissuto all’era dei Titani.

Non tutte le paleotocas hanno la stessa dimensione, e secondo alcune teorie quelle più piccole non sarebbero state affatto scavate dai megatheria, bensì dai gliptodonti, armadilli preistorici in grado di raggiungere la dimensione di una VW Beetle. I quali, invulnerabili ai denti della tigre, potevano tuttavia essere rovesciati a loro volta dagli artigli del bradipo, che era solito considerarli un pasto d’occasione particolarmente gradito.

Con la seconda scoperta tale distanza dal primo gruppo di tane, l’interesse della comunità scientifica aumentò esponenzialmente. Tanto da causare l’istituzione, pressoché immediata, del Projecto Paleotocas, un consorzio interdisciplinare con partecipanti di alcune delle principali università del Brasile, dedicato alla scoperta, classificazione e studio di quelli che potrebbero essere definiti, senza ombra di dubbio i più antichi e meglio preservati ichnofossili della storia. Ovvero la massima espressione di tutte quelle impronte, coproliti ed altri resti indiretti di alcune delle più maestose e imponenti creature vissute sul nostro pianeta. Ma anche un aspetto quotidiano, e certamente noto, nella vita dei progenitori della stessa specie umana, quegli ominidi che assai probabilmente, la carne di megatherium l’avevano assaggiata. E forse, in quelle tane, erano soliti avventurarsi con la torcia e rudimentali armi, al fine di impossessarsi anticipatamente del prezioso pasto della tigre.
Era un’epoca selvaggia e spietata, dove il più forte soverchiava il debole, l’anziano o l’inesperto. Perché questo è ciò che vuole la natura. Eppure vigeva la regola di una schiettezza e una semplicità d’intenti che per quanto ne sappiamo, nel futuro non conosceremo mai più. Neanche continuando a scavare, scavare per costruire sempre più in profondità.

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