Il verme che minaccia l’Africa con la sua fame

Il primo pensiero corre ai corvi divoratori di semi, per poi passare ai conigli, i cinghiali, le talpe, i castori. Anche le volpi e le anatre possono creare dei seri problemi in campo agricolo, specie quando tale attività occupa lo spazio che un tempo era appartenuto loro, prima dell’espansione degli spazi urbani e il conseguente spostamento delle fattorie in periferia. E poi, naturalmente, tutti quei terribili insetti che si riproducono velocemente per far scempio di ogni tipo di materia vegetale: afidi, tisanotteri, tetranichidi. Per non parlare, perché è quasi troppo orribile nominarla, della terribile locusta, assurta al rango di piaga biblica fin dall’epoca di alcuni dei più antichi testi scritti dall’umanità. Che una volta calata in formazione sopra i campi coltivati, sosta solamente il tempo necessario a farne scempio, prima di spiccare il volo nuovamente verso nuovi e orribili obiettivi. Però vedete, c’è almeno un lato positivo in tutto questo: nelle loro migrazioni, tali insetti raramente tornano da dove sono provenuti. Il loro terribile potenziale distruttivo, dunque, non ha metodo ed appare immediatamente per ciò che in effetti è: un disastro imprevedibile, che percorre le pianure per sparire e forse, non tornare a palesarsi mai più. Ci sono cose anche peggiori a questo mondo. C’è la puntuale e deleteria intenzione di rovina palesata da creature come l’armyworm (G. Spodoptera) che almeno dal 1957 prospera e tormenta ampie regioni dell’Africa meridionale, incluse l’Etiopia, la Somalia, la Zambia, lo Zimbabwe, la Nigeria ed il Sud Africa, principale produttore di grano e cereali dell’intera regione. Le conseguenze sono generalmente nefaste, ed in particolare il raccolto del 2017 si prospetta come anche peggiore dei precedenti, soprattutto in funzione dell’arrivo improvviso ed inspiegabile di una nuova specie, proveniente dal continente Americano: lo Spodoptera frugiperda (armyworm autunnale) che risulta ancora più difficile da individuare per tempo, soprattutto perché poco conosciuto dai nativi. Il che è assolutamente deleterio, perché in genere dai primi segni dell’infestazione ci sono circa due giorni e mai più di tre, perché la situazione diventi irrecuperabile ed un buon 70% del raccolto venga trasformato nella poltiglia mezzo-masticata che produce questo insetto durante la sua progressiva crescita, che può durare fino a tre settimane. Già, proprio così: insetto. Nonostante il suo nome infatti, e come potrete certamente notare dal video soprastante, questo terribile animale non è un verme, bensì il piccolo bruco di una particolarissima falena, estremamente odiata in almeno due continenti, proprio perché fa un qualcosa di letteralmente inaudito per la sua genìa: migra in vaste formazioni, prima di sganciare le sue uova a mo’ di bombe a grappolo sopra i campi sottostanti, confidando nella capacità di sopravvivere della sua prole. La quale, una volta consumato tutto il cibo prontamente disponibile, si organizza in lunghe file indiane, marciando come l’organizzazione militare da cui prende il nome. Motivo per cui in Africa questi bruchi vengono chiamati anche kommandowurm.
Tutto può iniziare all’improvviso, nel corso di una sera indistinguibile da tutte le altre. Alcune timidi lepidotteri in avanscoperta, dalla banale colorazione marrone-foglia con un punto bianco verso il centro delle ali, si affollerebbero in prossimità delle luci della fattoria, cercando freneticamente la luce rassicurante del Sole. È molto difficile, in questa fase, che il contadino riesca a riconoscere il pericolo, semplicemente per l’aspetto estremamente semplice delle falene, quasi letteralmente indistinguibili da schiere di loro cugine totalmente inoffensive. Quindi, nel silenzio della notte, giungono le formazioni principali dello sciame, che adotta un comportamento gregario simile, benché non uguale, a quello delle cavallette verdi o marroni. A quel punto, le falene sono stanche per il lungo volo, che può aver coperto decine, se non centinaia di chilometri, ed hanno la forza appena sufficiente per deporre all’incirca un migliaio di uova ciascuna, che attaccano con cautela sotto le foglie delle piante bersaglio. Esse sanno bene che la loro vita è pressoché finita, ma non lasciano che questo le scoraggi dal compiere il destino per cui sono venute al mondo. In breve, il piano è pronto ad essere eseguito e le madri si disperdono, sparendo nel nulla senza lasciare alcun tipo di segnale. Nel giro di un tempo variabile tra 2 e 5 giorni, a seconda della temperatura, i piccoli fanno quindi il loro primo ingresso nel mondo. In questo stadio, i bruchi sono minuscoli e di colorazione verde, risultando sostanzialmente invisibili durante un’ispezione sommaria dei campi. Le loro mandibole risultano tanto minute da non riuscire neppure a staccare interi pezzi della pianta ospite, sulla quale inizialmente compaiono soltanto delle macchie marroni, il primo segno di qualcosa che non va. Se ancora, tuttavia, il padrone umano di casa non dovesse notarle, a questo punto gli insetti si fanno più audaci, incrementando progressivamente la quantità di materiale consumato, finché non diventano, letteralmente, troppo grandi per l’involucro della loro pelle. Ciò avverrà più volte nel periodo di crescita di fino a tre settimane, che li porterà a raggiungere la dimensione di circa 2-3 centimetri e una colorazione tendente al marrone. A quel punto, gli Spodoptera abbandonano ogni prudenza e iniziano a masticare le foglie con una tale enfasi da non lasciare letteralmente più nulla, tranne lo stelo centrale, producendo un suono appena udibile che viene paragonato talvolta a quello dei tarli. Una volta satolli, quindi, si lasciano cadere a terra e scavano una buca, all’interno della quale formeranno il bozzolo necessario per spiccare il volo, al termine della metamorfosi dalla durata di altre quattro/cinque settimane. Quindi, inevitabilmente, il ciclo ricomincia. Volete conoscere qual’è l’impatto economico di una simile minuscola, apparentemente insignificante creatura? Voi non avete idea…

Imparare a riconoscere i primi segni dell’infestazione è assolutamente vitale per garantire la sopravvivenza di una coltivazione. Mancato l’avvistamento della falena, l’unica speranza è cogliere un bruco neonato di sorpresa sotto una foglia, facilmente identificabile dalle strisce gialle sul corpo nero.

Il problema principale dell’armyworm è che può mangiare, letteralmente, qualsiasi tipo di pianta. La maggior parte dei suoi attacchi si verificano su coltivazioni di mais ed altri cereali, ma non sono inaudite anche distruzioni sistematiche di campi di soia, cotone, tabacco e patate. Gli appartenenti al genus degli Spodoptera hanno inoltre la pessima abitudine di riprodursi in modo più efficace immediatamente dopo il termine di un lungo periodo di siccità, andando a colpire con la loro voracità popolazioni che si trovano già in pesante stato di disagio. In modo particolare, annate particolarmente prospere per l’insetto sono quelle successive al passaggio del Niño, che già minaccia in Africa il sostegno alimentare di una cifra stimabile sui 90 milioni di persone. Proprio quando sembra che le cose inizino ad andare per il meglio, quindi, cala sui campi questo flagello inconsapevole ed apocalittico, peggiorando ulteriormente lo stato delle cose. Nel dicembre del 2009 l’infestazione dei vermi si diffuse rapidamente in 10 regioni della Tanzania, dove gli agricoltori erano stati precedentemente addestrati a reagire rapidamente con i giusti mezzi, che prevedono prevalentemente l’impiego di pesticidi. Nonostante questo, entro la fine del mese andarono distrutti 1.400 acri di coltivazione di grano. Entro gennaio del 2015, occorrenze simili si erano verificate in Zimbabwe ed in Botswana, dove fu coinvolto anche l’esercito nel tentativo di contrastare il nemico subdolo e persistente. Sostanze chimiche furono gettate dagli aerei. Trincee scavate per impedire lo spostamento dello stadio larvale dell’insetto. Interi campi bruciati, nel tentativo di contenere la diffusione del verme. Schiere di galline liberate nei campi, più che mai felici di fagocitare voracemente ogni cosa strisciante che gli capitasse a tiro. Ma ogni volta, immancabilmente, esso riusciva a sopravvivere e faceva il suo ritorno. Finché, quest’anno, la catastrofe ulteriore: il governo dello Zambia segnala infatti la presenza sul suo territorio di una nuova specie, apparentemente del tutto conforme allo S. frugiperda nordamericano, probabilmente importato con provviste di cibo o attraverso il volo degli aerei. Una creatura dalle abitudini alimentari simili, ma che presenta un problema ulteriore e precedentemente sconosciuto sul territorio africano: la capacità di scavarsi un rifugio direttamente nello stelo principale della pianta di mais, diventando completamente impossibile da individuare. La necessità di trovare una soluzione a lungo termine diventa, dunque, ancor più pressante.
Càpita quindi che una speranza potenziale potrebbe essere stata individuata nell’opera dell’entomologo dell’Università di Lancaster Kenneth Wilson, che da oltre trent’anni studia questi insetti ed in particolare la loro vulnerabilità al virus dall’occorrenza naturale dello SpexNPV, che riesce talvolta ad impedirgli di raggiungere l’età adulta, bloccando il ciclo distruttivo della loro inarrestabile riproduzione. Tentativi di veicolarne l’impiego in un nuovo tipo di pesticida sono purtroppo per ora falliti, a causa della rapida capacità di adattamento ed immunizzazione del verme, benché l’impegno e la fiducia dello scienziato non siano in alcun modo diminuiti. I suoi studi sui campioni che annualmente raccoglie durante i lunghi viaggi in Africa meridionale, dunque, continuano febbrilmente, nella speranza futura di trovare un modo sufficientemente efficiente per ucciderli, salvando così la vita di milioni di persone.

La scena in cui Kenneth Wilson visita questi campi dello Zambia risulta piuttosto impressionante, con l’unico metodo rimasto a disposizione di molti agricoltori per eliminarli di rimuoverli uno ad uno e metterli in ciotole da svuotare presumibilmente sul fuoco, nella speranza di riuscire a salvare almeno una minima parte del raccolto.

Spesso si parla dell’orribile dono portato dagli esploratori europei alle popolazioni del Nuovo Mondo, i microrganismi portatori d’innumerevoli malattie, che nel giro di una singola generazione sterminarono gli imperi degli Incas e dei Maya. Quello a cui non pensiamo sufficientemente spesso, è che un simile interscambio deleterio è continuato a sussistere per quanto concerne le creature naturali, arrivando a svolgersi in entrambi i sensi con fludità e continuità veicolate dai potenti mezzi della globalizzazione. Sarebbe così assurdo, dunque, affermare che le nuove ondate invasive dell’armyworm siano la risposta del continente americano all’antico scempio arrecatogli dall’intento di conquista nostrano? Dopo tutto, la natura è una macchina che riesce a correggere se stessa. E noi esseri umani, nonostante quello che vorremmo pensare, non siamo che un singolo, ingombrante organismo di quel tutto indistinguibile ed unito.
Prima delle coltivazioni altamente organizzate di piante domestiche in grado di sostenere la moderna tentacolare, multiforme società, il verme già esisteva. Anche molto tempo dopo la nostra estinzione, esso vivrà ancora. Divorando allegramente le foglie concimate con le ossa di quei grandi ed insensati esseri, che un tempo tormentavano se stessi (e lui medesimo) coi pesticidi.

Lascia un commento