Il coraggio di guidare il motorino in Vietnam

Il sentimento che pare albergare dietro a questo video potrebbe sembrarci molto familiare: un altro giovane senza rispetto per la legge, dietro il manubrio di un pericoloso bolide, guidato senza alcun riguardo per la sicurezza propria ed altrui. Costui si piega in mezzo al traffico, schiva le automobili sterzando il minimo richiesto, attraversa incroci come fossero uno svincolo dell’autostrada. Non c’è cautela e all’apparenza, neanche istinto di conservazione personale. Tutto questo, finché non si nota la nazione presso cui è girata l’inquietante scena: l’estremità di una penisola, non molto più grande dell’Italia, che fu martoriata dalla guerra, affetta da un crisi senza precedenti e poi, a partire dalla metà degli anni ’80, ricreata grazie all’apertura dell’economia privata, con l’adozione della politica nazionale del Doi Moi. Grandi motori, sospensioni rigide, pneumatici da gara: che ne ha bisogno? Per il Vietnam, c’è un solo simbolo che può trascendere tali aspetti propri del materialismo diseducativo: due ruote ed un sellino, l’umile e fidato motorino. Siamo ad Hanoi. Città affollata (7 milioni di abitanti) tentacolare e dalle molte ombre, in cui i semafori sono sostanzialmente un optional, per lo meno nella maggior parte dei sentieri. Intendiamoci: non è che presso le maggiori strade di scorrimento, manchino le basilari luci usate per chiarire la precedenza. Ma se anche l’amministrazione cittadina dovesse estendere il servizio altrove, sarebbero ben pochi a rispettarlo. Purtroppo, aggiungerei. Lo sapevate che in quel paese muoiono per gli incidenti in media 30 persone al giorno? Per un totale annuale che supera quello delle vittime dovute alle pandemie. È come la savana. Dove non ci sono regole, sopravvive il più svelto, il più scaltro, quello dotato dei riflessi migliori. Difficilmente, il più cauto e attento a rispettare alcuna regola di contesto.
Quindi eccoci qui, trasformati nel cubetto di una telecamera d’azione, posti virtualmente a bordo di un Honda Astrea di cilindrata medio-piccola (non dovrebbe superare i 125 cc) che poi altro non sarebbe che la versione estremo-orientale della serie Wave/Innova. Il che ci dice, in linea di principio, già diverse cose in merito al pilota. In un paese dove i mezzi due ruote registrati raggiungono i 16 milioni, superando di gran numero le auto e addirittura, le abitazioni delle grandi città, ciò che si guida quotidianamente diventa un simbolo del proprio status, un prezioso mezzo per esprimere se stessi. E colui che guida un motorino giapponese o americano, per quanto possa trattarsi di un vecchio modello, vuole generalmente dimostrare la propria appartenenza ad una classe benestante che lo usa per recarsi al lavoro, piuttosto che per lavorare direttamente, ovvero fare le consegne di merci, giornali o animali di vario tipo. Simili veicoli vengono spesso personalizzati dai giovani, con colorazioni o livree particolari (se è una donna) o modifiche alle prestazioni, talvolta finalizzate alle competizioni illegali notturne (se si tratta di un uomo). Un caso a parte, a tal proposito, costituiscono le Vespe di progettazione italiana, generalmente molto costose da queste parti e mantenute nello stato originario, con la qualifica di preziosi cimeli di famiglia. C’è un qualcosa, in effetti, che accomuna l’Italia dell’immediato dopoguerra al Vietnam dell’ormai trascorso e pieno accettato Doi Moi, dove un’intera generazione di fautori della contro-cultura si dimostrarono fermamente intenzionati a fare di questi mezzi lo splendente destriero in grado di condurre un’intera società verso il nuovo capitolo della sua storia. Con una significativa differenza: mentre da noi la moto costituiva uno strumento per liberarsi dalle imposizioni delle vecchie generazioni, inclusa la necessità d’integrarsi e produrre, lì serviva esattamente allo scopo contrario: fare dei suoi proprietari degli orgogliosi appartenenti al sistema del consumismo, appena nato dopo le lunghe generazioni di economia gestita con pugno di ferro dal governo. Avveniva spesso verso l’inizio degli anni ’90, quando ancora radunarsi in strada era rigorosamente proibito dalle leggi vietnamite, che interi gruppi di motorini percorressero le strade a bordo dei propri mezzi, passando silenziosamente di fronte alla polizia. Non è chiaro quale fosse l’origine di questi assembramenti. Ma nessuno sembrava avere l’autorità, né l’intenzione di fermarli. Mano a mano che la società acquisiva nuovamente il senso dell’individualismo, quindi, simili piccoli atti di ribellione diventarono insignificanti. E il tiro, così come la quantità, degli individui liberi da alcun concetto di codice della strada aumentò a dismisura, finché oggi, si guida così…

La circolazione stradale vietnamita è stata definita “una macchina che trae beneficio dal caos”. Dove non ci sono regole, governa l’istinto. E può talvolta bastare uno sguardo, un lieve cenno della testa, per stabilire a chi tocchi la precedenza. O così, o morte…

Avete mai osservato il comportamento delle letterali migliaia di moto, delle poche sparute macchine e degli occasionali pedoni che si affollano presso un incrocio di Hanoi o Saigon (Ho Chi Min City) durante una qualsiasi ora del giorno e della notte? Ognuno sembra ben conoscere il suo ruolo. Gli scavezzacollo delle due ruote sono come l’idrogeno tra le molecole complesse, che s’insinua trova sempre il modo di passare. Costituiscono un collante che sfreccia, il medium all’interno del quale galleggiano i diversi ingredienti della zuppa ad orologeria. I veicoli più grandi, invece, costituiti al 95% dai taxi che lavorano con i turisti, sembrano letteralmente cadere verso la loro destinazione, procedendo in modo lento e prevedibile, ma inesorabile sotto ogni punto di vista. Un autista vietnamita non sterzerà mai neanche di un grado per schivare i motociclisti trovatisi in difficoltà. Semplicemente perché facendolo, ne investirebbe immediatamente altri 5 o 6. E in mezzo a tutto  questo, le persone a piedi, che potrebbero sembrare palline del pachinko, per come scivolano serenamente tra gli ostacoli letali, bagagli o carichi alla mano, procedendo barcollanti tra le molte tonnellate di metallo suddivise in schegge più taglienti del titanio. Come diceva il titolo del nostro video di apertura: “È meno pericoloso di quanto sembra.” Ma è comunque… Piuttosto pericoloso.
Risulta tuttavia difficile, dall’esterno, comprendere la portata e la natura del fenomeno motociclistico vietnamita. In un paese dove un veicolo come questo può costituire un investimento, dal punto di vista delle classi rurali e meno agiate, ma un semplice e mero status symbol, all’interno degli ambienti urbani. Spesso, complice la sovrappopolazione di tali spazi, spostarsi a bordo dell’erede della bicicletta costituisce un prezioso momento di solitudine, lontano dalle imposizioni della famiglia e della società. Non è raro che amici, amiche o coppie di fidanzati compiano dei giri di pattugliamento, senza alcuna meta prefissata, semplicemente per parlare liberamente senza il rischio che qualcuno li ascolti e possa ricordarsi di loro. In altri determinati casi, lo scooter diventa uno strumento di assembramento per gruppi giovanili che vedono il mondo e la pensano allo stesso modo: le cosiddette gang, che non sempre o necessariamente hanno implicazioni finalizzate alla criminalità diretta a terzi. Ma che spesso, incontrandosi tra le 10 di sera e mezzanotte, si organizzano per dare il via a pericolose gare, nelle quali l’occorrenza di incidenti è tutt’altro che rara. È importante notare, a tal proposito, come nessuno corra per rappresentare unicamente se stesso bensì il gruppo di amici, la cricca propriamente detta che non gareggia mai contro se stessa. Sembra quindi, a tal proposito, che la rinuncia dell’individualismo non sia ancora sparita da questa particolare società.

Il fiume ininterrotto di persone non conosce remore né soste di alcun tipo. Ciascuno col suo motorino, attentamente selezionato per rappresentare la propria classe sociale di appartenenza. Guai a un giovane di buona famiglia, che dovesse andare in giro con un mezzo scalcagnato! La sua famiglia non gli darebbe tregua. Per non parlare, ovviamente, del contrario.

Molti dei turisti di ritorno dal Vietnam concordano in questo: nelle grandi città come Hanoi o Saigon, una delle cose che finiscono per essere più affascinanti e memorabili non sono i templi, gli edifici storici o i musei. Bensì il traffico stesso, che sembra muoversi secondo le precise indicazioni di un organismo iper-meccanico e trascendente. Il che ci porta, inevitabilmente, alla chiara conseguenza: i più coraggiosi di noi che, giunti presso questo luogo remoto, scelgono di affittare o addirittura acquistare per poi rivendere (ci si riesce con l’equivalente di 150-200 euro) un mezzo a due ruote, per entrare in circolo nel flusso sconvolgente ed incredibile di un tale maelstrom di persone.
Per alcuni ciò costituisce un’esperienza rivelatoria, per altri un’assoluto incubo delle circostanze. Qualcuno di voi ricorderà, molto probabilmente, la caduta del chiassoso Jeremy Clarkson durante lo special del 2008 del celebre programma motoristico Top Gear, proprio nel bel mezzo dell’escursione in Vespa ad Hanoi. Ma anche l’attimo liberatorio, il momento lungamente atteso in cui il trio dei conduttori veniva trasportato dai rispettivi motorini fino alle propaggini della remota periferia, finalmente libero dalla chiassosa e vociante folla di persone, per trovarsi nel mezzo di valli verdi e rigogliosa vegetazione. Verso il viaggio in un luogo dall’antica storia ed il passato sofferto, ma gli ottimi presupposti di un futuro ricco di opportunità. Mostrato, per una volta, da un raro caso di realtà televisiva: guidare il motorino è in fondo un’esperienza alla portata di tutti. Ed è molto significativo, nonché atipico, che essa possa custodire l’anima più profonda di un intero paese.

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