Chi è più forte, la catena o la katana?

kusarigama

Voi guardate questa scena, sopra il pavimento in legno del più rinomato dojo di Abeno per l’annuale evento di Kobudo, e vedete la solita dimostrazione del Nito Shinkage Ryu Kusarigama Jutsu, condotta diligentemente dagli appartenenti del Nihon Kobudo Kyokai. “Niente di…Speciale?” Ma se stringete gli occhi, scorgerete qualche cosa di diverso. Un confronto antico, che attraversa un campo di battaglia privo di confini materiali. Il confronto attraverso i secoli, perennemente rinnovato negli scontri fatti oggetto di studio dai maestri di arti marziali: perché la spada è l’anima del samurai, come ci insegnano generazioni di fumetti e cartoni animati. Eppure addirittura il puro spirito, può essere sconfitto e allontanato se si affronta da lontano. Con l’attrezzo GIUSTO.
Il termine di paragone più spesso utilizzato per aiutarci a comprendere il ruolo del guerriero tradizionale giapponese è un confronto diretto con il cavaliere europeo, anch’egli nobile per nascita, soldato di professione e in determinati casi, saggio amministratore delle dispute di un feudo ricevuto in commissione. Ma era l’intera scala di valori, ovvero il sistema stesso alla base del suo ruolo istituzionale, ad essere profondamente differente: perché non fu mai posto, al centro dei testi di riferimento filosofici di questa classe sociale fin dall’epoca del primo shogunato di Kamakura (1192) il concetto universale della probità. Come avrebbe mai potuto esserlo, quando il termine stesso riferito a una tale chiamata della vita era il “servire”, nella maniera esemplificata dall’etimologia dello stesso termine saburau, tenersi a lato. Se il proprio signore era un fervente buddhista, incline a minimizzare le sofferenze dei propri compagni sul tragitto del samsara, egli avrebbe consegnato i pasti ai poveri, fatto l’elemosina e impugnato la propria spada unicamente contro i malvagi. Mentre se il detentore del potere era uno spietato conquistatore, una scia di sangue avrebbe accompagnato il suo cammino, fino all’incendio tragico nell’ennesimo padiglione dell’Honno-ji. E al termine di quell’esperienza, ormai rimasto senza l’ombra di una guida o bussola morale, i capelli e la barba incolti nell’informale tenuta del ronin, lo spadaccino itinerante si sarebbe a volte trasformato nell’equivalente del mitico kamaitachi, la faina invisibile nel vento, un mostro intento a incidere ferite nelle membra dei passanti.
Non sto affatto esagerando: avete mai sentito parlare della stimata tradizione del kiri-sute gomen? Una locuzione che significa “Diritto ad uccidere ed andare via” usata per riferirsi all’ampia definizione del concetto di autodifesa insegnata ai discendenti dell’antico codice, per cui anche l’onore del proprio nome e della propria presenza meritava di essere protetto grazie al filo di metallo della sacra spada ereditaria. In altri termini sarebbe bastato, fino all’ultimo periodo del Sengoku Jidai (1478-1605) ritenere di essere stati offesi in qualsivoglia maniera da un appartenente ad una classe inferiore, ma anche un altro samurai dalla famiglia meno nota, per giustificare l’immediata separazione della sua testa dal corpo, con un solo fluido colpo di katana. Terribile, nevvero? Eppure, non ancora prettamente barbarico, se vogliamo. Un termine attribuibile a pieno titolo, d’altronde, per quanto concerne la pratica dello tsujigiri, che consentiva all’acquirente di una nuova spada di uscire dalla bottega del fabbro, attendere l’ora del tramonto e quindi “metterla alla prova” sulla pelle del primo malcapitato di passaggio. Simili omicidi, formalmente, erano considerati un crimine efferato. Ma molto raramente venivano davvero perseguiti. Il che può riportarci al nostro paragone di partenza: il samurai, come il cavaliere medievale europeo, veniva riverito dalla popolazione del suo paese. Qualche volta, sinceramente ammirato. In altri territori, nel contempo, era l’oggetto di un odio profondo e un’avversione più che mai giustificata.
Difendersi da un assassino imprevisto non è mai semplice, soprattutto nel caso in cui costui sia armato, ed abile nell’utilizzo del proprio affilatissimo implemento. E combattere il fuoco con il fuoco non è certo una buona idea, soprattutto quando si considera come il possesso stesso di una spada, da parte di un contadino, un artigiano o un mercante, fosse letteralmente impensabile, ed al tempo stesso un reato punibile sommariamente proprio con i metodi sopra descritti. Ma qualsiasi samurai, fuori dal campo di battaglia, aveva una fondamentale debolezza: era armato esattamente nello stesso modo. Due spade, la corta (wakizashi) e la lunga (katana) impugnate rigorosamente una per volta, almeno fino al sopraggiungere di un celebrato personaggio Vagabondo. Il che permetteva l’elaborazione di una tattica specifica, ovvero un’approccio utile a sopravanzare, o per lo meno bloccare sul nascere, qualsiasi confronto all’apparenza impari toccato all’indifesa vittima delle spietate circostanze. E quel sistema, talvolta, era proprio quello lì, il kusarigama. Un falcetto all’apparenza simile al tipico attrezzo usato per lavorare nei campi, e quindi facile da nascondere sulla propria persona, ma dotato di un manico notevolmente più pesante, una lama particolarmente affilata (talvolta su entrambi i lati) e sopratutto una lunga catena denominata konpi, con un peso metallico all’estremità. La quale, fatta mulinare vorticosamente sopra la testa, poteva raggiungere istantaneamente l’avversario dall’esterno del suo stesso raggio d’azione, infliggendo lesioni o avvolgendosi direttamente attorno alla lama tenuta in mano, per procedere quindi all’immediato disarmo. Qualche volta, ritengono gli storici, una simile inversione delle parti potrebbe anche essersi verificata. Benché gli utilizzatori principali di un simile attrezzo per l’autodifesa fossero, molto spesso, gli stessi samurai. Per non parlare dei loro eterni rivali…

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Presso gli spazi moderni dell’odierno villaggio di Iga (prefettura di Mie) due figuranti ninja dimostrano l’efficacia del kusarigama. Alla fine, ovviamente, sarà lo spadaccino ad avere la peggio.

Esistono due possibili strade della storia, ipotizzate come punti d’origine della tradizione della falce a catena. La prima ne attribuisce il primo uso formale a niente meno che Fujiwara no Kamatari (614-669 d.C) fondatore del clan che avrebbe detenuto il potere sulla corte imperiale per l’intero estendersi dell’epoca Heian, fino al sorgere della nuova aristocrazia guerriera. Il quale, oltre a riformare i metodi di governo e numerose leggi in essere, offrì altri significativi servigi al trono, incluso assassinare personalmente il cospiratore Soga no Iruka, che dopo aver circuito l’imperatrice Kōgyoku appariva fermamente intenzionato a sostituirsi al principe ereditario (con prevedibili conseguenze per quest’ultimo). Questa è la visione che associa quest’arma al contesto formale della classe dirigente, e ne vede un significativo perfezionamento successivo ad opera del misterioso samurai Nen Ami Jion (1351-?) fondatore della scuola di arti marziali Isshin-ryū. Secondo una leggenda sarebbe stato infatti proprio lui, mentre era intento a riformare gli insegnamenti ricevuti in eredità dal maestro Harayuki Uemon Ujisada, a vedere in sogno la figura luminosa di una divinità senza nome, probabilmente un santo bodhisattva, che gli porse con fare solenne i due fondamentali oggetti: l’invincibile falcetto e la terribile catena.
Per quanto concerne una visione più realistica e scientifica dell’intera vicenda, ci sono invece diverse teorie sull’origine materiale dell’arma. In piena epoca Kamakura (1185-1333) già esistevano ad esempio delle armi lunghe simili a falci, definite kamayari, le quali si dimostravano particolarmente utili durante le battaglie navali, per agganciare e bloccare lo scafo nemico. In tutte le stalle dei signori, inoltre, era presente un particolare strumento di nome jingama, simile ad un’asta con una lama che sporgeva lateralmente. Il quale doveva servire, ipoteticamente, in tutti i casi in cui scoppiasse un incendio e fosse necessario liberare i cavalli tagliando i legacci e le altre corde, senza esporsi direttamente ai loro zoccoli già colti dal panico finale. Ora la tradizione voleva che l’addetto a tale mansione, una volta effettuata tale operazione, scendesse sul campo di battaglia se necessario, armato con lo stesso jingama e nell’altra mano, se possibile, della konpi, la catena appesantita. Da questa configurazione originaria, si ritiene, potrebbe essersi evoluto il kusarigama.

kotetsu-shoge
Una forma più antica dell’arma era il kyoketsu-shoge, un’arma il cui strano nome significa letteralmente “correre liberi tra i campi e le montagne”. In essa un coltello uncinato prendeva il posto della falce, mentre il peso al termine della konpi aveva una caratteristica forma circolare. Questo attrezzo, più complesso da nascondere, fu lungamente parte dell’armamentario dei ninja.

Esistono almeno tre tipi di kusarigama, attentamente codificati nella tradizione delle scuole che ne insegnarono l’uso: il primo è quello più semplice, che prevede l’aggancio della catena nella parte inferiore del manico, in opposizione alla lama. Questa tipologia, mirata a rendere possibile una maggiore quantità di movenze, era in realtà la più inefficiente nel condurre a destinazione il colpo a distanza, in quanto mancava l’effetto della leva prestato dal manico dell’oggetto. L’arma di tipo II, invece, quella usato dal praticante del video di apertura, prevedeva che l’estensione flessibile partisse dalla parte superiore della lama, incrementando notevolmente la forza dei colpi. Con un simile approccio tra l’altro, cosa non da poco, l’arma non avrebbe più richiesto l’uso della seconda mano per tenere avvolta e lanciare la catena, rendendo possibile di fatto impugnare una seconda falce (kama) o altri ausili a sconfiggere il proprio avversario in battaglia. Il terzo tipo era invece una variante del primo, con catena posizionata sotto ma che vedeva l’aggiunta di un paramano o uno tsuba (guardia della spada) che permettevano di fatto l’impiego del manico per deviare o parare i colpi. Un altro elemento variabile era la lunghezza della catena, che partiva da un solo metro ma poteva arrivare fino a quattro. Incrementando, nel primo caso, la velocità dei colpi portati a segno, ma permettendo d’ingaggiare nel secondo il nemico da una distanza superiore, nonché prestandosi a fungere da attrezzo per arrampicarsi sulle mura di un castello. Proposito tutt’altro che insolito nella vita dei praticanti delle arti notturne. In particolare, la falce a catena restò lungamente legata alla tradizione dei villaggi ninja di Iga e di Koga, nonché al personaggio del loro rinomato intermediario presso la corte di Ieyasu Tokugawa, il leggendario capo delle spie Hattori Hanzo.
Nei campi di battaglia propriamente detti, il kusarigama vide sempre un utilizzo estremamente ridotto: non soltanto esso era infatti naturalmente adatto ad affrontare un singolo avversario, o al massimo due alla volta, ma il suo feroce mulinare avrebbe costituito un pericolo altrettanto gravoso per i propri stessi alleati. Inoltre, dato che la vittima perfetta di quest’arma era la spada, essa avrebbe trovato ben pochi utilizzi contro la lancia o l’arco, le vere armi impiegate dai samurai quando si vestivano con l’armatura. No, stiamo qui parlando di un’implemento per l’autodifesa, nato e cresciuto in tempi di pace. Il che non bastava certamente a renderlo, sotto alcun aspetto immaginabile, meno letale.

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