L’uomo che lesse il futuro nel fato dei topi

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Il 27 settembre del 1973, in una stanza sita in Vaticano, Papa Paolo VI incontra un uomo distinto di 56 anni, giunto su invito dai distanti Stati Uniti. I due si stringono la mano, quindi si rivolgono qualche parola di reciproca stima. Se da questo incontro scaturì uno scambio d’opinioni rilevanti, se l’impressione lasciata nella mente dell’uno o dell’altro personaggio sia stata durevole o fruttuosa, questo non ci è noto. Ciò che invece conosciamo molto bene, è la ragione che portò John B. Calhoun del Tennessee, etologo e ricercatore, fin lì, quel giorno: egli aveva infatti scritto, in un suo articolo del gennaio di quello stesso anno, a proposito del fenomeno biblico dell’Apocalisse, con una chiarezza descrittiva e una precisione d’intenti che assai probabilmente, il mondo non aveva conosciuto fin dall’epoca dell’apostolo Giovanni. Un’impresa tutt’altro che mistica, quando si prende in considerazione come egli, dopo tutto, l’avesse vissuta in scala ridotta, dalla posizione privilegiata di un piccolo creatore. O spietato dittatore. Disposto a condannare 2.000 minuscole, squittenti anime sopra l’altare della scienza, perseguendo una ricerca che assai probabilmente, in patria, nessuno si sarebbe mai sognato d’interpretare in chiave religiosa. Nessuno tranne lo scienziato stesso, che aveva esordito nella relazione presentata al pubblico dei suoi colleghi con la descrizione dei Quattro Cavalieri, da lui messi in relazione con le principali cause di morte del mondo naturale: emigrazione forzata, mancanza di risorse, tempo inclemente, malattia e predazione. Per poi descrivere, con atroce dovizia di particolari, il concetto basilare nel cristianesimo della “seconda” morte, ovvero quella del corpo, che segue al fiaccamento dello spirito dovuto alle infauste circostanze. Con un esempio pratico, lungo e articolato, che seppe gettare nello sconforto un’intera generazione.
Dovete sapere che all’epoca di questo incontro, Calhoun amava una cosa sopra ogni altra, ovvero i roditori. Non era sempre stato così: in età scolare, fino ai 15 anni di età, la sua passione erano stati gli uccelli, che aveva conosciuto e approfondito partecipando alle riunioni della Società Ornitologica di Nashville, dove si era trasferito coi suoi genitori per dare già i primi segni di una mente fervida e devota agli animali. Ma fu a partire dal 1943, con il suo conseguimento della laurea presso la Northwestern University dell’Illinois e scegliendo l’argomento della tesi, che si sarebbe imbattuto nella sua bestia totemica, croce e delizia di  un’intera carriera: il ratto norvegese (Rattus norvegicus) o topo di fogna, così diverso, tanto simile a noi. Le prime avvisaglie di quella che sarebbe diventata la sua ricerca più famosa si ebbero già a partire dal 1946, quando l’etologo, trasferitosi nel Maryland con la giovane moglie, iniziò a collaborare con un progetto sull’ecologia dei topi gestito dalla John Hopkins University, che consisteva nell’osservarne una colonia per un periodo di 28 mesi, all’interno di un recinto all’aperto di 930 metri quadri. Occasione durante la quale, Calhoun scoprì come nonostante le cinque femmine di R. norvegicus potessero teoricamente permettere alla colonia di raggiungere nel tempo prefissato fino ai 5.000 esemplari, questi non avessero mai superato i 200, per stabilizzarsi quindi sui 150. Una questione tanto inspiegabile, ed apparentemente contraria alla logica, da finire per appassionarlo. O in altri termini, diventare la sua ossessione. L’uomo prese quindi in affitto il secondo piano di un grande granaio a Rockville, nella Montgomery County, dove rimase a lavorare tra il 1958 e il 1962. Egli aveva qui disposto, sotto un pavimento trasparente, una serie di habitat per topi, ciascuno dotato di una scaletta per scendere e modificare facilmente le condizioni di contesto. Mentre da sopra era possibile osservare gli occupanti, mentre correvano da un lato all’altro della gabbia per portare a compimento le faccende quotidiane. E fu così che mentre guardava, scriveva ed annotava ogni singola cosa, allo scienziato venne un’idea. Una mostruosa, terribile idea…

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Molti dei primi esperimenti di John B. Calhoun godettero del finanziamento diretto della Fondazione Rockfeller per la lotta contro la povertà. Una volta acquisita fama sufficiente nel suo settore, lo scienziato venne quindi assunto direttamente dal governo degli Stati Uniti.

Possono sussistere diverse interpretazioni dell’intera sgradevole faccenda: forse la scienza non può progredire senza qualche (ir)ragionevole sacrificio, oppure è possibile affermare, senza un briciolo di dubbio, che i ratti siano stati fin dall’epoca remota i principali nemici dell’umanità, portatori di malattie, dissacratori delle città, uccisori dei bambini o cuccioli di gatto momentaneamente incustoditi. E non credo che molti fra noi, trovandone una famigliola in casa propria, avrebbero esitato nello sterminare fino all’ultima vibrissa e coda serpeggiante, ogni singolo batuffolo di pelo. Il fatto stesso che la nostra società, ed il senso dell’igiene pubblico, siano progrediti fino al punto in cui non è più necessario essere spietati con gli animali infestanti, se non in rari ed eclatanti casi, è la prova di quanto ci siamo allontanati dalla condizione primitiva dell’uomo vittima e carnefice della natura. Così è probabile che nulla, prima della creazione dell’habitat 25 di John B. Calhoun, avesse posto le basi per la punizione più completa ed esiziale di un’intera genìa sub-umana, con una crudeltà che solamente col procedere dell’esperimento, fu diventò finalmente palese. Il che non significa che lo spazio dedicato al progetto, nell’edificio di Poolesville nel Maryland di proprietà dell’Istituto Nazionale per la Salute Mentale (Acronimo: NIMH – vi ricorda nulla?) fosse stato costruito come una sorta di inferno in Terra. Esso era, anzi, il paradiso, o per usare il termine preferito dal suo stesso costruttore, l’utopia universale dei ratti. Si trattava di un parallelepipedo di 2,7 metri per lato, con barriere perimetrali alte 1,4 metri, all’interno delle quali erano stati preparati dei tunnel verticali facilmente scalabili, conducenti ad una serie di cellette, ciascuna in grado di ospitare un’intero clan di roditori. L’ambiente era totalmente privo di pericoli o elementi di disturbo, e veniva regolarmente rifornito di cibo. Esso costituiva, dunque, molto più di quanto i piccoli mammiferi avessero il diritto di desiderare. In questo Eden in miniatura, quindi, Calhoun introdusse 8 topi: 4 maschi e 4 femmine. Nulla più di questo. E si sedette ad osservare.
Ora, la capacità riproduttiva dei ratti è niente meno che leggendaria. Così, nel giro di 55 giorni, l’etologo si ritrovò orgoglioso possessore di 620 topi. Da quel momento, la crescita della popolazione continuò a raddoppiare ogni 145 giorni, arrivando ad un totale di 2.200 creature, sempre attentamente rifornite di cibo, curate dalle malattie, perfettamente rifornite di ogni cosa potessero desiderare. Tranne lo spazio necessario a contenerli. Era stato stimato che l’habitat 25 potesse contenere, ipoteticamente, fino a 3850 animali, ma questo numero non venne mai raggiunto. Perché tra il giorno 315 e il 600 questo intero mondo ipoteticamente sereno, letteralmente, cessò di esistere.

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Recentemente è stato scoperto nella Polonia Occidentale un bunker dalle caratteristiche insospettate: in prossimità di una delle sue prese d’aria, infatti, sopravvive un formicaio. E ce n’è un secondo dentro, costituito unicamente dalle operaie che cadono all’interno di un lungo tubo. Per poi continuare a lavorare nell’oscurità, fino al momento della loro dipartita per l’inevitabile inedia. Sopra una piramide di morti, in mezzo alle feci dei pipistrelli… – Via

È orribile a pensarci. Assolutamente terrificante: che con la rimozione di ogni ostacolo alla sopravvivenza, vengano naturalmente a mancare quelle pulsioni basilari che sono il fondamento stesso della società (dei topi). Così a partire dal decimo mese, le femmine in età riproduttiva smisero di cercare un compagno. Mentre i maschi, asserragliati nei loro mini-appartamenti sulle pareti della grossa scatola, presero ad uscire unicamente per combattere tra loro, nonostante ci fosse cibo in abbondanza e sufficiente per tutti. Alcune zone dell’habitat subirono un’estrema sovrappopolazione, mentre altre, silenziose e immobili, rimasero del tutto vuote. Alcuni esemplari, meno forti, vennero aggrediti fino allo sfinimento, e letteralmente esiliati dal gruppo dei loro simili. Mentre altri, perfettamente in salute, smisero del tutto di partecipare ai patemi della collettività, ritirandosi in solitudine, e passando le loro giornate unicamente a pulirsi, mangiare e dormire. Calhoun, che fece di questo aspetto uno dei punti cardine del proprio esperimento, lì definì “i belli” poiché essi costituivano esteticamente un esempio del Rattus norvegicus nella sua situazione di massimo splendore, con il pelo lucente e nessun tipo di patologia, con gli occhi lucenti e all’apparenza, pronti a cogliere il più piccolo particolare. Ma essi erano, ad un’analisi più approfondita, come istupiditi, e totalmente scollegati dalla realtà. Così nel frattempo, tutto attorno la violenza continuava, ed uno dopo l’altro, i topi morivano. Le nascite raggiunsero lo zero spaccato, cessando di contrastare l’inevitabile mortalità. La loro attenta rimozione, tuttavia, continuava a mantenere l’illusione del perfetto paradiso. Verso un anno dall’inizio dell’esperimento, erano rimasti in vita solamente poche coppie di esemplari quando, finalmente, l’iniziatore dell’idea vi appose la parola fine.
Sulla base di questo suo esperimento epocale, spesso citato come punto d’inizio di un’intera nuova branca degli studi sociali, Calhoun coniò il termine di affondamento comportamentale (behavioral sink) una sorta di linea di non ritorno, oltre la quale la sovrappopolazione causava un sovvertimento della natura fondamentale di ogni creatura, portandolo a una trasformazione in essere privo di una qualsivoglia forma di raziocinio. Egli aveva concepito questa interpretazione come uno spunto per cambiare il nostro stile di vita, affermando che l’uomo, essere creativo e intelligente, potesse aggirare ipoteticamente l’insuperabile condizione dei topi, elevandosi al di sopra dei propri stessi limiti interiori. Non a caso, a partire da quell’esperienza, lo scienziato divenne negli anni ’60 un grande sostenitore del programma spaziale, attraverso il gruppo informale degli Space Cadets, frequentato da menti insigni del mondo accademico statunitense. Nel 1971, l’autore letterario Robert C. O’Brien trasse dalle esperienze di Calhoun un libro per bambini, Mrs Frisby ed i ratti del NIMH, il cui adattamento cinematografico, dal messaggio positivo di speranza, avrebbe reso celebre il disegnatore di cartoni animati Don Bluth.
Ma un’altra chiave interpretativa è possibile: che agli esseri dalla mente più avanzata, come per l’appunto gli umani ed in misura minore, i nostri fratelli topi, la semplice sopravvivenza non basti. E che essi necessitino, per non subire la prima delle due morti bibliche, per lo meno di un senso latente di sfida. Ed è probabilmente proprio in questo, che gli insetti ci superano, e sopravviveranno a noi. Soltanto con la cessazione del senso dell’individuo può esistere la vera immortalità. Bisognerebbe tuttavia chiedersi: “Ne vale veramente la pena?”

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