I pozzi petroliferi nascosti tra le palme ed i palazzi di Los Angeles

LA Oil Wells

Lenta e inesorabile, la quattordicimilioni-settecento-quarantunesima del secolo raggiunge il velo denso della superficie, affiora, emerge e poi scompare, disgregata per la cessazione della sua coesione chimica di base. Il messaggero tondeggiante del profondo. L’emisfero già scoppiato tra le foglie morte, per tanti stolidi miliardi d’anni. Silenziosamente, l’osservano modelli in scala 1:1 delle bestie che qui furono sepolte, da risvolti sfortunati dell’altrui destino. Stiamo parlando, per essere chiari di ciò che è, o per meglio dire era, una bolla nel catrame nero fumo, vista tutt’altro che rara qui, vicino ad Hancock Park, nel paese dei sogni e dei balocchi dove ogni volo d’immaginazione pare prendere una forma fisica e immanente. Eppure quella stessa Hollywood, quartiere rinomato e grande fabbrica di mondi, non è che una scheggia transitoria, un refolo di vento, innanzi ai pozzi bituminosi di La Brea, chiare indicazioni di un trascorso d’epoche selvagge, tigri sciabolanti, lupi enormi, bradipi di terra e poi chiaramente lui, il mammut. Lanuginoso testimone di quello che è stato, per sempre incapsulato nella colla naturale dell’asfalto ante-litteram, già usato al tempo delle prime colonizzazioni dalle genti dei Chumash e dei Tongva per dare impermeabilità alle antiche canoe. Mentre a partire dal secolo del ‘900, nell’epoca della possente precisione dell’industria, ci sarebbe parso assurdo far ricorso ad un sistema tanto “naturale” specie quando esistono la plastica, i polimeri, la forza astrusa dell’ingegneria moderna… Ed è per questo che l’universo semi-sommerso di La Brea, oggi dopo tutto, è stato declassato al ragno di semplice curiosità, mentre tutti i suoi migliori fossili, da tempo fatti emergere, sono custoditi nel vicino Museo di Storia Naturale a Wilshire Boulevard, edificio con vista giardino. Ottimo. Così, la gente non ci pensa troppo spesso. A ciò che giace sotto 50, 100 metri di terra compatta, ben oltre le fondamenta dei grattacieli e i tunnel della metropolitana. A cosa macera, dal tempo di Matusalemme, generando i liquidi ed il gas maleodorante che permette al mondo di girare. Chi se lo sarebbe mai aspettato? Finché, Eureka! Gridò qualcuno di nome Edward Laurence Doheny, che nel 1890, preso in affitto un lotto di terra per il prezzo modico di 400 dollari del 1892, non si mise a scavare con pale, picconi e un trapano a carrucola basato su di un tronco di eucalipto acuminato, fino alla profondità di 69 metri. Dove trovò… Un suo personale pozzo di La Brea, senza particolari fossili del mondo. Ma un mare intero di asfalto bituminoso, dal quale, tramite un processo chimico piuttosto semplice, è possibile creare il PETROLIO. Quaranta barili al giorno nel suo caso, per dire.
Un numero decisamente interessante, per chiunque avesse soldi da investire nella fiorente nascita di quella che già stava profilandosi, a tutti gli effetti, come un primo accenno di fiorente industria delle risorse. Il pozzo di Doheny, che costituiva il primo successo dopo tre intere decadi di tentativi, continuò a produrre per tre anni, durante i quali lui e il suo socio Charles A. Canfield, contemporaneamente ad altri imprenditori, praticarono perforazioni in circa 300 altri luoghi della città. All’epoca, naturalmente, non esistevano grosse fisime sulle sicurezza o norme particolarmente stringenti, così ogni luogo andava essenzialmente bene: dietro le case, nei cortili delle scuole, tra gli alberi dei parchi cittadini… Tutti volevano una fetta della nuova torta d’oro nero, e pressoché chiunque, dinanzi alla prospettiva di un facile guadagno, era pronto a sanzionare la presenza di un ingombrante, rumoroso pozzo d’estrazione a pochi metri dalla porta di casa sua.  Si era scoperto che l’intera città di Los Angeles sorgeva sul terzo mare sommerso di petrolio più grande degli Stati Uniti e il genio dell’avidità era ormai uscito dalla tanica della benzina. Nessuno aveva le risorse per ricatturarlo! Grazie alla celebre propensione imprenditoriale del popolo statunitense, in breve tempo vennero formate circa 200 compagne petrolifere in competizione tra di loro, che giunsero, all’epoca d’oro di questo “trionfo” a gestire un gran totale di 1.250 trivelle attive nello stesso tempo. Le spaziose e famosissime spiagge della città, tra cui l’iconica Long Beach, furono costellate dalle caratteristiche pompe derricks basculanti, che l’immaginario collettivo associa ai recessi più assolati e solitari del remoto Texas, o altri luoghi egualmente prossimi all’ambiente del deserto. Attorno al 1920, la sola città di Los Angeles rispondeva al 25% del fabbisogno MONDIALE di petrolio. Quindi, con l’esaurirsi dei giacimenti più facilmente raggiungibili, le cose iniziarono a cambiare…E i pozzi, ad aumentare!

Acidizing LA
Tra i metodi di estrazione impiegati a Los Angeles c’è quello dell’acidizzazione, una tipologia particolarmente venefica di fracking, che dissolve le rocce grazie agli acidi idroclorico e fluoridrico. Secondo studi non confermati, i fumi risultanti da una tale prassi potrebbero avere una forte componente carcinogenica, specie per gli individui ancora in età di sviluppo.

C’è una sorta di drammatica e crudele giustizia, in tutto ciò. Quanto spesso abbiamo sentito dire, soprattutto in occasione del recente referendum sulle concessioni petrolifere offshore della costa adriatica italiana, che il problema fondamentale è che la maggior parte della gente trae dei benefici dall’industria, ma non paga quasi mai personalmente il prezzo della sua esistenza? Se soltanto gli abitanti di questi interi paesi rovinati dalle scorie e dagli scarti delle piattaforme private, avessero potuto decidere per loro stessi, si disse, di certo essi avrebbero agito per salvare l’ambiente in cui vivevano da generazioni… Peccato che poi, al resto del popolo dello Stivale interessò semplicemente troppo poco per giungere a una decisione chiara. Fin troppo tipico, ahimé. Resta tuttavia davvero interessante, fare un raffronto con la situazione di questa grande metropoli statunitense, dove non soltanto l’amministrazione tollera le circa  3.000 trivelle che graziano i suoi vasti quartieri, ma offre condizioni convenienti a tutti coloro che hanno tempo, soldi da investire ed il coraggio di correre un rischio, verso l’ardua realizzazione del sempre fondamentale sogno americano. Fu così che durante il boom edilizio degli anni successivi al secondo dopo-guerra, i consorzi che compravano gli appezzamenti per la nuova periferia di L.A, non sempre poi ci costruivano le tipiche villette a schiera della convenzione. Bensì alte torri, molto comodamente collegate ai servizi idrici ed elettrici della città, per cominciare anche loro a scavare. E poi la gente, attratta dai prezzi particolarmente bassi, lì ci andava a vivere, felice. Quasi come se tutto, addirittura la salute, fosse secondario ad un accumulo di cifre nel proprio conto bancario. Chi non risica, non rosica, come si dice. Ed anche il pericolo più atroce, se mantenuto distante dagli occhi, diventa trascurabile e insignificante ai più. Almeno, finché non torna per chiedere il conto.

The Tower of Hope
La “Torre della Speranza” nel cortile di un prestigioso istituto scolastico privato, potrebbe essere considerato un incredibile monumento alla follia dell’uomo. Ma quanti soldi…Ci fa guadagnare!

Il che ci porta al nocciolo dell’intera questione, forse l’aspetto più incredibile in assoluto: anche negli Stati Uniti, questa diffusione di pozzi presso il centro e la periferia cittadina, resta relativamente poco nota. Persino tra gli abitanti di L.A. stessa, non sono in molti a rendersi conto dell’estensione e della letterale onnipresenza di questa industria tanto potenzialmente lesiva, che noi europei siamo abituati a collocare ben più lontana da dove i bambini vanno a scuola, o la gente dorme nella pace della propria stanza da letto, fino all’ora che gli è più consona. Certo, gli abitanti di quartieri tra i più sfortunati, tra cui la famiglia intervistata nel sopra-incluso servizio della rivista Vice, sono fin troppo coscienti del frastuono mattutino causato dall’accensione delle trivelle, degli odori nauseabondi dell’acqua di lavorazione, del caos causato dai continui spostamenti di macchinari ed attrezzatura. Ma una volta lasciato il luogo di residenza per recarsi presso l’ufficio o altro luogo diurno (con probabile sollievo immediato) poi passano dinnanzi ad altre letterali dozzine di derricks che, semplicemente, non possono vedere. È ormai considerata prassi comune, e necessaria, infatti, che le torri d’estrazione di Los Angeles siano in qualche modo “nascoste” agli occhi della gente, molto spesso con la costruzione tutto attorno di un vero e proprio edificio. O per meglio dire, della sua sola facciata, priva di finestre, nell’approssimazione inquietante e sovradimensionata di un qualche misterioso monolite. Altre torri sono circondate dagli alberi, o se più piccole, esse stesse camuffate a guisa di palme. Talvolta si sceglie addirittura di farle sembrare delle antenne telefoniche, preferendo ricevere proteste per quello che sarebbe stato, indubbiamente, il minore dei due mali.
Mentre forse la soluzione più affascinante e strana, impiegata nei distretti commerciali e negli altri luoghi di eccessiva esposizione, resta quella di abbellire direttamente la torre, con pannelli variopinti scelti per l’occasione, utili a renderla una sorta di orribile scultura moderna. Si sceglie, in quei casi, di fare affidamento sul senso dell’abitudine della gente comune, che ormai è rassegnata ad un tale situazione, e senza dubbio esclama alla visione di una tale stravaganza: “Ah, però! È davvero molto meglio di prima…”

THUMS Islands
Alcuni dei più estesi e famosi pozzi di Los Angeles si trovano a poca distanza della costa, presso le isole artificiali cosiddette degli Astronauti (ognuna ha il nome di una persona che è stata nello spazio) o di THUMS (l’acronimo della compagnia che le ha in gestione). Ciascuna di esse, vista da lontano, sembra ospitare un attraente paradiso tropicale. Ma all’eventuale sbarco, si rivelerebbe sotto gli occhi dei turisti un mondo di apparecchiature e silos di vario tipo…

Ben lontana dai suoi fasti trascorsi, tuttavia l’industria petrolifera di L.A. continua indisturbata. Secondo quella prassi problematica per cui al progressivo esaurirsi di una risorsa, piuttosto che diminuire gli sforzi per estrarla, essi aumentano. Perché con le infrastrutture già piazzate, anche soltanto una frazione dell’antica età dell’oro resta sufficiente a far guadagnare cifre dai numerosi zeri. Così la produzione cittadina, ad oggi, si attesta sui 250.000 barili e tutti vivono (più o meno) felici. O almeno questo è ciò che pensano, perché l’abitudine cancella il male, in funzione del nostro pervasivo senso d’ottimismo, variabilmente giustificato. Lo spettro della dannazione, tuttavia, resta pur sempre in agguato. Particolarmente grave è stato il caso del 23 ottobre del 2015, quando gli impianti di estrazione del gas naturale presso il canyon di Aliso, a circa 100 Km da Los Angeles, riportò l’improvvisa rottura di un tubo sotterraneo, liberando nell’atmosfera circa 50.000 tonnellate di metano l’ora. Una situazione che arrivò a portare nei mesi successivi diffusi giramenti di testa negli abitanti locali, perdite di sangue dal naso ed infezioni alla gola ed alle orecchie. È fondamentale notare come simili incidenti, tra l’altro, non siano affatto facili da risolvere, con una situazione d’emergenza che si protrasse fino a febbraio del 2016, quando finalmente la compagnia che aveva in gestione l’impianto riuscì a chiudere la falla e far cessare l’avvelenamento collettivo. Ma chi può dire fra quanti anni, ed in quale orribile modo, quella gente pagherà il prezzo di un simile disastro…
Azione, reazione, soluzione! Sarebbe bello poter dire che la gente del colossale centro urbano, colpita da un tale evento, si attivò immediatamente per far chiudere gli impianti di estrazione del petrolio letteralmente siti a pochi metri dal proprio cortile, attivando un movimento senza precedenti per far allontanare la bomba ad orologeria dai propri preziosissimi polmoni. Completo di raccolte firme, proteste in piazza, petizioni al congresso e vaste campagne d’informazione collettive… Ma tutto questo, naturalmente, resta un sogno! Reso impossibile dallo stato attuale delle cose, dallo stesso tessuto che ospita la nostra immane-umana società. È come il fato della tigre a sciabola, che inseguendo la sua preda intrappolata dal catrame, non faceva altro che finire anche lei condannata. Ma fu proprio la sostanza nera e appiccicosa, totalmente impenetrabile all’aria, a consegnarci un tale scheletro con fauci acuminate, totalmente intatto fin dall’epoca della remota dipartita. O in altri termini: moriremo tutti. Ma qualcuno sopravvivrà. E quel qualcuno, guardando indietro, finalmente troverà la soluzione. Beato lui.

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