Sette miliardi di dollari e 13 scatole attorno alla Luna

Space Launch System

Nella fisica dei corpi celesti, soprattutto quelli al di sopra di un certo ordine di grandezza, è del tutto naturale che le cose piccole ruotino attorno a quelle dalla massa più imponente, per l’effetto costante dell’attrazione gravitazionale. Ed è proprio questo ciò che avviene pure, su scala minore, qui a Terra, nel mondo delle consegne via corriere. Per la costante crescita e l’imporsi su scala globale di realtà aziendali come Amazon, oggi, il recipiente principale dei pacchi inviati con tale modalità è diventato l’utente privato, ovvero colui che mai, prima d’ora, si sarebbe sognato di utilizzare un servizio diverso dalla posta tradizionale. Ma provate voi, per mero esercizio di stile, ad immaginarvi come i diretti produttori di una qualsiasi missiva spedita attraverso UPS, TNT, Fedex… Di essere quindi voi stessi, a dover pagare un viaggio in aereo e per strada a un qualcosa di estremamente piccolo, quasi insignificante nello schema generale delle cose, come un disco ottico, un libro, una chiavetta USB. Non sarebbe affatto improbabile ritrovarsi, nel conto da saldare ad una di queste realtà multinazionali, un costo anche notevolmente superiore al valore del singolo oggetto selezionato. Spostarsi costa, ed altrettanto può essere detto, senza timore di smentita, del gesto di spostare le cose. Detto questo, è tutta una questione di prospettiva. E propositi funzionali di fondo.
Ora, la metodologia con cui le grandi agenzie governative statunitensi effettuano le loro dichiarazioni alla stampa non è fissa. E nel caso specifico del recente 2 febbraio, data in cui è stata diffusa questa notizia lungamente attesa, nessuna delle fonti più facilmente accessibili online dichiara in effetti come si sia verificato l’annuncio. Ma è indubbio che quando un giornalista viene invitato ad una conferenza stampa, presso il centro missilistico del Marshall Space Flight Center in Alabama, o in alternativa riceve una lettera, e nel campo di chi l’ha mandata compare quel logo con la costellazione di Andromeda e i quattro caratteri N-A-S-A, le aspettative tendano a crescere in modo esponenziale. Del resto, sono ormai diversi anni che l’uomo moderno, attanagliato dai guai sociopolitici ed economici di un mondo appesantito dal timore per il domani, guarda nuovamente allo spazio con una sorta di tenue speranza. Ed è così diventata emblematica la rilevanza mediatica data non soltanto a missioni di proporzioni gigantesche, come quella affrontata per portare il rover Curiosity su Marte, la sonda Rosetta che ha “catturato” una cometa o il lungo viaggio della New Horizons fino al di là di Plutone, ma anche ad imprese private comparabilmente meno epocali, quali gli esperimenti ingegneristici per la costruzione di un razzo riutilizzabile, compiuti in parallelo dai patron della Tesla Motors (Elon Musk – Space X) e di Amazon stessa (Jeff Bezos – Blue Origin). E tutto questo non sarà del resto nulla, al confronto con quanto, oramai sappiamo, inizierà a verificarsi a partire da una data stimata attorno al 2018, con la partenza della prima nuova Exploration Mission dell’SLS (Space Launch System) il più grosso, e potente, razzo spaziale mai costruito. Che prima o poi porterà nuovamente l’uomo al di fuori dell’orbita terrestre, come non avveniva dai tempi delle missioni Apollo, ma non prima di aver consegnato a destinazione, come primo regalo ai suoi pagatori, alcuni pacchetti a forma di parallelepipedo forniti di pannelli solari, della dimensione unitaria approssimativa di una scatola di scarpe (30×20 cm) destinati a vagare nel grande vuoto per qualche settimana o mese, conducendo importanti esperimenti fino al sopraggiungere dell’inevitabile spegnimento finale. In quella che potrebbe definirsi, senza timore di smentite, la consegna ultraplanetaria di micro-satelliti più costosa di tutti i tempi: con 7 miliardi di dollari all’attivo, ed un costo stimato finale per quello che verrà dopo di altri 28, da bruciare gloriosamente entro la fine del 2025.

Space is Hard
Stephen Granade, del canale YouTube CoconutScienceLab, illustra presso il centro visitatori del Marshall Center le differenze prestazionali tra il razzo Saturn V ed il moderno SLS. Inoltre, chiarisce quanto carburante sia necessario in proporzione ad un’ipotetica automobile per poter spedire detto veicolo, a noi molto noto, fin oltre gli strati superiori dell’atmosfera. Praticamente, una cisterna o due.

La questione non è tanto illogica, se ci pensate soltanto un minuto: non importa quanto sia sofisticato ed attentamente studiato un meccanismo tecnologico, se questo non è mai stato fisicamente testato, messo alla prova e sotto stress, non si potrà mai in buona coscienza affidargli la vita di due, tre…Sei persone. Ciò costituirebbe un’imprudenza, ed un rischio, di proporzioni semplicemente folli. E il primo razzo del modello Saturn V a lanciare un velivolo verso l’effettivo suolo della Luna con un equipaggio umano, in effetti, fu quello appartenente all’undicesima missione Apollo, con i suoi tre membri dell’equipaggio destinati ad entrare nella storia, Neil A. Armstrong, Michael Collins ed Edwin “Buzz” Aldrin, Jr. Ma prima di loro, quante prove c’erano state! Ivi inclusa quella dell’Apollo 8, in cui altri tre uomini certamente meno noti, Frank F. Borman, James A. Lovell e William A. Anders, giunsero fin sopra le valli del nostro corpo notturno più vicino e splendente, soltanto per girargli attorno, guardarlo da lontano e poi ritornare fin qui da noi. Costo dell’impresa: pari a quello della costruzione di un’intera città. Esperimenti scientifici compiuti: virtualmente, zero. Tranne quello più importante di tutti, ovvero compiere il gesto, sopravvivere, e poi ritornare a Terra, con una storia magnifica da raccontare. Ed esiste forse una versione migliore, e più omnicomprensiva, del concetto stesso di esplorazione spaziale? Dopo tutto, non c’era di certo all’interno di una capsula di comando come la loro, uno spazio vitale pari a quello dei moderni eredi del loro mestiere, gli astronauti della stazione ISS, che in situazioni di caduta libera prolungata, possono persino scegliere di giocare a pallone. Una mancanza di spazi vitali, questa, che verrà presto risolta, assieme a molte altre, dal completamento del nuovo programma relativo al nuovo Space Launch System.

Orion Space Capsule
L’astronavicella Orion è stata completata e testata per la prima volta nel 2014 (mediante l’impiego di un razzo Delta IV Heavy, non già l’SLS come scritto da alcune testate italiane). La definizione usata in questo video per connotarla è quella, decisamente colorita, di un “Apollo che ha preso steroidi” vista la sua dimensione molto maggiore, l’equipaggio aumentato a 6 membri ed i sofisticati sistemi e l’avionica di bordo.

Tutto ebbe inizio, se vogliamo prendere in analisi la questione dalla sua genesi remota, con l’istituzione nel 2005 del programma Constellation, il maggiore impegno preso dalla NASA statunitense tra il 2005 e il 2009. Quando nonostante il lungo periodo di relativa immobilità dell’uomo dal punto di vista degli spostamenti al di fuori del proprio pianeta, la meta lungamente desiderata di Marte appariva ancora vicina, alla portata, persino, di questa generazione. Lo stesso logo, realizzato per pubblicizzare l’impresa a beneficio del grande pubblico, esemplificava l’intera questione: tre sfere l’una dentro l’altra, rappresentanti, rispettivamente, la Terra, il suo satellite ed il Pianeta Rosso, al quale saremmo giunti impiegando la spinta iniziale, con notevole sapienza costruttiva e tecnologica, di due razzi definiti rispettivamente Ares I e V, il primo dei quali con equipaggio a bordo, mentre il secondo carico di apparecchiature assortite e materiél coloniale. Finché non avvenne progressivamente chiaro, con l’approfondimento dei fattori di contesto, che il costo approssimativo di un simile progetto sarebbe stato di “appena” 230 miliardi di dollari, portando le amministrazioni di Bush ed Obama a rettificare il tiro, verso mete più raggiungibili e meno finanziariamente spropositate. La soluzione scelta, quindi, fu decisamente furba e funzionale: rivolgersi alla maggiore compagnia aerospaziale nazionale, la Boeing, per far adattare il progetto esistente dello Space Shuttle verso quello che viene definito comunemente un “mezzo per il sollevamento pesante” ovvero la nuova versione dei vecchi, poderosi Saturn V. Giungendo ben presto all’ipotesi tecnica dello Space Launch System, nient’altro, in effetti, che lo stesso sistema impiegato per lanciare lontano il nostro vecchio caro velivolo riutilizzabile per le missioni orbitali (per citare una frase celebre: “Perché reinventare la ruota?”) con l’aggiunta di un ulteriore stadio superiore e naturalmente, visto il suo ritiro dal servizio attivo a partire dal 2011, la rimozione dell’aereo. Sostituito, come da programma, con una nuova capsula per l’equipaggio affine a quella del programma Apollo, molto più piccola e leggera di un mezzo pensato per il volo aerodinamico orbitale.
Costruita da mani umane, questo appare immediatamente ovvio, per andare MOLTO più lontano.

SLS Upgrade Path
I diversi stadi evolutivi previsti dell’SLS, a partire dal Block 1, la versione attualmente in corso di completamento presso la Michoud Assembly Facility. Il razzo Block 1B, ancora in fase di progettazione, sarà invece più lungo, a causa dell’aggiunta di un ulteriore stadio propulsivo. Per quanto concerne l’ancòra successivo Block 2, quello che presumibilmente si occuperà di portare l’uomo su Marte, si parla invece di “nuovi propulsori migliorati” le cui specifiche, ad oggi, restano largamente ignote.

Ma simili ipotesi di viaggio, questo è naturale, ci appaiono ancora terribilmente lontane. Nella situazione attuale, con il razzo che sta lentamente prendendo forma in Louisiana, presso i colossali sistemi automatici della MAF (Michoud Assembly Facility) di New Orleans, le missioni effettivamente approvate per il futuro SLS ammontano soltanto a quattro. Che sono, partendo a ritroso dalla più avanzata e ambiziosa, inviare un equipaggio umano presso un asteroide spostato artificialmente in orbita attorno alla Luna (2026) inviare una sonda attorno a Giove (2025) mandare persone in orbita retrograda attorno al nostro beneamato satellite (2023) e tutto questo non prima, come per l’appunto dichiarato l’altro giorno, di aver completato l’Exploration Mission 1, entro e non oltre il 2018. Che consisterà, come accennato più sopra, nel caricare all’interno di una versione cargo appositamente costruita della navicella Orion un sistema di lancio per un numero variabile di micro-satelliti automatici, definiti CubeSats (l’ultima cifra ammonta a 13 unità distinte) destinati ad esser rilasciati nel vero e proprio spazio profondo, con la finalità di effettuare prove sperimentali di meccanismi e tecnologie che ci saranno estremamente utili per l’esplorazione spaziale futura, ivi incluso il nostro viaggio più atteso, fino al pianeta più prossimo nel club esclusivo del Sistema Solare. Meccanismi, questi, che la stampa internazionale non ha esitato a definire “droni spaziali”, in osservanza della mania collettiva corrente per tale parola, e che in particolare qui in Italia stanno avendo una forte risonanza per la partecipazione al progetto dell’azienda torinese di progettazione e consulenza ingegneristica ARGOTEC, la stessa, tra le altre cose, che si occupò famosamente di consegnare a maggio scorso una macchina per fare il caffè agli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale, con lo speciale patrocinio della nostra celebre Samantha Cristoforetti. La press release ufficiale della NASA, disponibile sul sito ufficiale dell’agenzia statunitense, si occupa di elencare alcuni dei CubeSats che saranno forniti da aziende americane, principalmente mirati ad effettuare studi della Luna e degli asteroidi più vicini, ma non cita affatto il dispositivo italiano, né gli altri coinvolti nel progetto tramite il concorso internazionale denominato CubeQuest, che mirava a cercare suggerimenti da parte degli innumerevoli fornitori del programma spaziale statunitense. Il drone italiano ad ogni modo, almeno stando alle informazioni pubblicate dalle testate e blog di settore, dovrà contenere degli “innovativi sistemi di comunicazione”.
Che potrebbero anche essere, per quanto ne sappiamo, del tipo che in futuro verrà impiegato per tenere in contatto due pianeti del tutto distinti, l’uno azzurro, l’altro assolutamente rosso, come il dio della guerra da cui scegliemmo di dargli il nome. Ma chiunque venga infine convinto a compiere il grande balzo, e dovrà ritrovarsi completamente da solo ad oltre 80 milioni di Km da casa, farà meglio ad accontentarsi di bevande in polvere e cibo frugale. La consegna di capsule di rifornimento, con il caffè o senza, non sarà per niente semplice, laggiù.

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