L’arma più micidiale mai concepita

SLAM Missile

Nell’antichità tutti i metodi per uccidere erano, come si usa dire, bianchi. Con punta di lancia, con taglio di lama, con testa di ascia, si tentava di uccidere il proprio nemico. Ed era una cosa orribile, senz’altro, esattamente come adesso. Eppure c’era un senso latente d’eleganza, dovuto all’inerente responsabilità necessaria per un gesto che non era facile da compiere, soprattutto in mezzo al caos di un capo di battaglia. E ciascuna delle armi utilizzate, a suo modo, era magnifica. Leggiadra ed affilata, saettante come il capo di un serpente, con aculei come spine di una rosa. Tentare di trafiggere qualcuno scagliando via la propria spada, ai tempi del Codice dei Cavalieri, sarebbe stato un gesto non soltanto privo di senso, ma disonorevole ed irrispettoso, verso i molti secoli di sapienza artigiana che essa racchiudeva, per non parlare della potenziale eredità del proprio genitore in armi, che con questo oggetto trasferiva lo status della propria intera classe sociale. Erano costoro, guerrieri per vocazione, ma mai veri professionisti della morte. Poi col proseguire delle epoche, l’invenzione della polvere da sparo non fece che rinforzare la questione: perché l’archibugio, il moschetto, e infine, il fucile con la canna rigata, non entravano mai in contatto con la carne del morituro, limitandosi a proiettare al suo indirizzo schegge di metallo acuminate, ciascuna concepita per un singolo, sgradevole utilizzo. Poi gettata via, nella discarica dei proiettili sparati. Presto nacque un vero e proprio culto, che ha tutt’ora fin troppi proseliti proseliti, mirato a venerare l’arma da fuoco come massimo traguardo superato dall’umanità, uno strumento totalmente demoniaco e dunque, senza alcun dubbio, infuso di quella scintilla sacrale di divinità. Armi che donano la morte, la producono, la smerciano, persino. E che per farlo, necessariamente, devono incorporarla al loro interno, in qualche forma o definizione.
Ma venne infine un giorno in cui qualcuno giunse a chiedersi: “Sarebbe possibile costruire uno strumento, presente o futuro, che al suo interno racchiuda la Mietitrice in persona?” Al punto che il solo vederlo potesse porre fine all’esistenza di qualcuno, come pure l’udirlo, il nominarlo, o addirittura la sua mera concezione sopra i tavoli progettuali, bastasse a mettere in pericolo l’intera dormiente umanità… Era il primo gennaio 1957 quando una commissione formata dalle Forze Aeree Statunitensi e l’Ente per l’Energia Atomica scelse d’interrogare il laboratorio Lawrence di Berkeley sulla questione, ottenendo la risposta che Si, teoricamente, la potenza dell’atomo poteva essere usata per far volare un missile intercontinentale. Anche se sarebbe stato, naturalmente, molto rischioso. Ciò perché un nocciolo a fusione, per sua stessa implicita natura, era un ricettacolo di pericolose particelle alfa e beta, lanciate in ogni direzione e in grado di distruggere facilmente l’organismo umano. E proprio per questo, una simile creazione necessitava di uno spesso scudo protettivo, simile a quelli usati per i reattori commerciali, o in misura minore, montati tra il motore e l’area calpestabile dei sottomarini a propulsione radioattiva. Ma come avresti mai potuto tu, inteso come progettista o ingegnere aerospaziale, incorporare un tale pesante meccanismo su di un arma fatta per attraversare i continenti, ad una velocità diverse volte superiore a quella del suono? La risposta fu veramente semplice: è completamente inutile preoccuparsene. All’epoca tutti sapevano, fin troppo bene, che cosa avrebbe comportato premere quel tasto rosso dell’Apocalisse. Ed a quel punto, che differenza avrebbero mai fatto qualche centinaio di sievert in più nell’atmosfera totalmente ionizzata… Un piccolo prezzo da pagare, in cambio della capacità irrinunciabile di Realizzare Cose Straordinarie. Perché un dispositivo dotato di carburante a resa tanto elevata, avrebbe potuto volare letteralmente per settimane, giungendo a compiere il giro della Terra per ben tre volte. Inoltre, sarebbe stato lungo 25 metri, e avrebbe potuto incorporare un sistema di guida radar basato sull’elevazione del territorio sottostante, estremamente avanzato per l’epoca, che i progettisti americani avevano definito TERCOM (Terrain Contour Matching).  Tali caratteristiche gli avrebbero permesso, una volta in volo, di percorrere un complesso itinerario predefinito a bassa quota per schivare i radar, sopra le principali città ed installazioni militari dell’URSS, rilasciando per un certo numero di volte degli ordigni da fino a un megatone di potenza. Ne erano state proposte fino a una ventina. Continuando a spargere nel frattempo i suoi veleni, e causando danni incalcolabili per il continuo superamento della barriera del suono ad appena qualche centinaio di metri dal suolo. E alquanto incredibilmente, non finiva certamente qui.

Perché al termine del suo itinerario deleterio, quello che era stato definito ipoteticamente lo SLAM (Supersonic Low Altitude Missile) si sarebbe schiantato in luogo predeterminato, scelto per la sua importanza strategica, continuando a rilasciare ingenti radiazioni dal suo carburante ormai inutilizzabile. Prima che il paese duramente colpito, dunque, trovasse le risorse per rimuoverlo, l’intera regione sarebbe diventata permanentemente inabitabile, condannando intere generazioni future. Era una vera arma concepita per fare terra bruciata, del suo bersaglio e anche di tutto quello che si trovava sul tragitto per raggiungerlo. Era lo strumento della fine del mondo, la risposta alla difficile questione del garantire la mutua distruzione in caso di guerra mondiale con il Blocco contrapposto, se anche soltanto un solo strale fosse riuscito a partire dal suo silo sotterraneo. Era un vero capolavoro di progettazione, che aprì la strada a innumerevoli innovazioni successive.

SLAM Missile 2
In un documentario sui missili cruise del National Geographic, un ormai pensionato Walter Hesse della Chance Vought Aircraft, compagnia incaricata di realizzare la parte aerodinamica del velivolo, dimostra il funzionamento dello SLAM tramite l’impiego di un modellino. Il segmento rilevante inizia sui 27 minuti.

L’intera questione fu gestita con comprensibile segretezza, e vide l’impiego di numerosi nomi in codice ed equipe del tutto separate tra loro. Il progetto per la creazione del rivoluzionario motore del missile, come dicevamo, fu assegnato al laboratorio Lawrence, sotto la guida del prof. Ted Merkle ed assunse il nome di Progetto Pluto(ne), dal nome del dio romano dell’Oltretomba. Il fisico aveva concepito un sistema di guida estremamente interessante, basato sul principio dello statoreattore: ovvero un sistema che consisteva nel riscaldare l’aria all’interno di un lungo tubo a sezione variabile, quindi espellerla da dietro a gran velocità. Nel caso dello SLAM, tale struttura sarebbe stata il missile stesso, dotato di una punta retrattile che poteva agire come foro d’ingresso, ed al posto del combustibile convenzionalmente utilizzato per tale processo, avrebbe trovato posto il compatto e pericoloso reattore atomico, denominato amichevolmente “Tory”, che avrebbe operato per l’intero lungo volo dell’arma alla temperatura di circa 1300 gradi Celsius. Per poter sopportare simili condizioni estreme, le sue componenti interne furono realizzate in materiali affini alla ceramica, tramite il coinvolgimento di una compagnia produttrice di porcellana con sede in Colorado, la Coors. Inoltre i motori pneumatici impiegati per far muovere le canard (superfici sterzanti disposte presso la punta) del missile dovettero essere testati per poter funzionare anche al calor rosso, mentre l’elettronica di bordo necessitava di essere protetta da scudi termici ad alta resistenza. Si passò, quindi, ai primi test di fattibilità. Poiché lo statoreattore come concetto di propulsione, per sua insolita natura, richiede l’ingresso spontaneo dell’aria dalla parte anteriore del suo “tubo”, effettuare delle prove a terra del motore non fu affatto semplice. Nella versione finale dell’arma, questa sarebbe stata portata in quota da un propulsore esterno di tipo convenzionale, che una volta scollegato sarebbe ricaduto rovinosamente verso il suolo. Soltanto successivamente, sopra il silenzioso Oceano, il reattore nucleare sarebbe entrato nel suo stato critico di funzionamento. Gli scienziati fecero quindi costruire un vasto atrio sotterraneo sotto il deserto del Nevada, presso le Jackass Flats, definito il sito 401. Lì sotto, tramite l’impiego di un possente sistema di ventilazione preso in prestito dalla base dei sommergibili di marina di Groton, nel Connecticut, la pressione dell’aria fu aumentata a dismisura, creando condizioni simili a quelle del volo ad alta velocità. Il mini-reattore Tory fu quindi trasportato all’interno, e messo in moto per alcuni brevi, topici secondi. Era il 14 maggio 1961. Da una casamatta rinforzata, posta a diverse centinaia di metri di sicurezza e dotata dei più avanzati sistemi di videosorveglianza, Merkle e il suo team brindarono al successo dell’operazione. Lo SLAM poteva esistere. Lo SLAM avrebbe volato…E forse, prima o poi, ucciso.

SLAM Missile 3
Su YouTube è presente un’intera serie in lingua francese sul progetto Pluto e lo SLAM, purtroppo priva di informazioni relative alla sua provenienza originale. La serie di apre con una semplice, ma pregna rappresentazione di come potrebbe presentarsi il passaggio del missile da terra, dal territorio di uno degli alleati incolpevoli dei sui mittenti.

Nel giro di un paio d’anni, il progetto del missile venne ulteriormente migliorato, arrivando ad una versione successiva del reattore, il Tory IIC, che oltre ad essere più leggero poteva produrre 513 megawatts di potenza e l’equivalente di 17 tonnellate di spinta, per un tempo estremamente prolungato. L’implemento fu messo tuttavia alla prova per un tempo di soli 5 minuti, di fronte a un distante pubblico di generali e capi d’armata, che furono immediatamente pronti a congratularsi con l’evidente risposta pratica alla percepita necessità di fondo. Di disporre, infine, di un quarto vertice per il classico “triangolo nucleare” in cui una superpotenza poteva minacciare la sua nemica, in via teorica, con i tre strumenti di missili balistici lanciati da terra, bombardieri a lunga autonomia e sommergibili disposti per il globo, con il compito di occuparsi del fondamentale secondo attacco, meno preciso ma a più alta perdita di vite umane, che avvantaggiandosi di sistemi di guida meno complessi (all’epoca non esisteva il GPS) sarebbe stato indirizzato sui maggiori centri abitati del nemico. Mentre ecco qui, eureka! L’assoluta, potenziale perfezione? Un singolo missile che potesse decollare senza nessun preavviso, dimostrandosi perfettamente in grado di eseguire missioni di qualunque complessità, volando a quote tanto basse da essere impercettibile ai radar, e dunque impossibile da intercettare… Per analogia col soprannome di “piede di porco volante” che Merkle aveva dato all’arma, in funzione della sua sostanziale semplicità strutturale, in alcuni ambienti lo SLAM iniziò ad essere definito “il grande bastone”. Un appellativo che proveniva dalla vecchia espressione del sempre istrionico presidente Theodore Roosevelt, che si dice fosse solito affermare in merito a questioni diplomatiche: “Parla gentilmente e portati dietro un grosso bastone; andrai lontano.”

SLAM
Via

Intorno alla metà degli anni ’60, tuttavia, l’entusiasmo del governo americano per lo SLAM iniziò a scemare. I nuovi progressi compiuti nei campi della tecnologia radar, infatti, gettavano dubbi sull’efficacia della strategia di dissimulazione del volo a bassa quota. Inoltre un missile intercontinentale di tipo moderno, affine a quelli prodotti in quegli ultimi anni, poteva raggiungere l’obiettivo in un tempo molto inferiore dell’invenzione di Merkle, portando a destinazione un carico di morte solo leggermente meno ingente e comunque certamente adeguato allo scopo. C’era inoltre il “piccolo” problema, mai risolto, del come sarebbe stato possibile far effettuare dei voli di prova a un’arma il cui solo passaggio, avrebbe liberato terribili veleni nell’atmosfera. Si era pensato, in un primo momento, di fargli disegnare tragitti con la forma del numero 8 nei territori del Pacifico settentrionale, ma già molti tremavano, al pensiero di quello che sarebbe potuto succedere per un eventuale malfunzionamento dell’ancora sperimentale sistema di guida TERCOM. Ma il problema più grande, a conti fatti, rimaneva un altro: come avrebbe reagito, il governo sovietico, alla notizia dell’esistenza di una simile arma? Avrebbe tentato di produrne l’equivalente, o una versione migliorata? O nella peggiore delle ipotesi, indotto da una percepita superiorità del nemico in caso di guerra nucleare protratta nel tempo, avrebbe scelto di compiere il primo passo ed aprire le danze dell’ultima tempesta, l’annientamento totale di ogni essere vivente sul pianeta?
Erano anni di decisioni difficili, scelte che potevano condizionare il passo e l’esistenza stessa di un domani più che mai lontano. E fu in quel clima che alla fine, il primo luglio del 1964, il progetto Pluto fu ufficialmente terminato dalla direzione delle Forze Aeree, liberando dall’impegno le circa 450 persone che vi erano state coinvolte nel corso degli ultimi 7 anni. I 260 milioni di dollari (di allora) investiti non furono, tuttavia, dati per completamente persi, visto come molte delle tecnologie sviluppate per lo SLAM avessero nel frattempo trovato applicazione, nel campo più “ragionevole” della missilistica convenzionale. Così alla fine, la bestia ritornò a dormire. Ma sempre con un occhio semichiuso, pronta a risvegliarsi al minimo richiamo, di una situazione di politica internazionale che da allora, pur mutando radicalmente, non si è mai del tutto raffreddata. Né del resto giunta, molto fortunatamente, all’ultimo riscaldamento. Perché i cani dell’Inferno, come si dice, non bevono caffè. Ma togli lo zucchero, e chi può realmente dire, cosa ci aspetti dentro la ciotola d’Uranio…

Lascia un commento