In Zambia, gli elefanti affamati non prenotano MAI l’hotel

Mfuwe Lodge 0

“Vuoi dire che ho dovuto rinunciare al mio tè di metà pomeriggio coi biscotti soltanto a causa di QUESTO?” Un mango…Profumato. Si tratta di un problema endemico di questi luoghi, il che tra l’altro non significa che debba definirsi anche usuale, una roba insomma, che succede a giorni alterni. Per fortuna. Consideriamolo piuttosto, un miracolo della natura più selvaggia, espresso attraverso le sue interazioni con un qualcosa d’immanente che, nonostante ciò che postuliamo filosoficamente da generazioni, ne è una parte inscindibile e fondamentale: l’uomo. Accadde così, verso l’inizio del 2000, che quattro campi per turisti d’Africa del parco nazionale di Luangwa Sud, nello Zambia reso celebre in Europa dalla spedizione del dottor Livingstone (durata:1858-1864) formassero una sola compagnia, perché l’unione fa la forza, tra le belve come nell’economia, e dove non possono arrivare una dozzina di amministratori stranieri e guide locali, un multiplo di quella cifra di persone…Ah, non c’è limite alla fantasia. Così cresceva il numero di questi luoghi consociati e, parallelamente, nasceva il prototipo di un nuovo modo di trovarsi in mezzo al presupposto nulla, con tutti i comfort della civiltà moderna: elettricità, acqua corrente, vasche con l’idromassaggio. Tutto questo è la loggia di Mfuwe, fiore all’occhiello di questa ricca offerta per i visitatori, nello specifico collocata tra le due lagune barbaglianti che fanno da porta d’ingresso al parco. Cinque stelle ed una fama rinomata. La Bushcamp Company, al giorno d’oggi, è una vera istituzione di quel tipo di attività che viene comunemente definita eco-turismo, consistente nel recarsi ad osservare gli animali proprio laddove nascono, crescono ed esplorano le gioie della vita sotto il Sole. E quando hai un sito Internet visitato da ogni parte del mondo, con migliaia di recensioni positive sui portali rilevanti e un canale di YouTube da quasi 10 milioni di visualizzazioni, vuol dire che non soltanto tutti ti conoscono, ma apprezzano lo stile infuso in ciò che fai. Safari, del resto, è una parola Swahili che significa “marciare” e fin troppo spesso l’attività che si associa a questo punto fermo del vivere africano è quella condotta al volante di veicoli, ingombranti e rumorosi, tutt’altro che adeguati per godersi il ritmo ed il silenzio di questi luoghi remoti. Mentre qui, nello Zambia meridionale, vige ancora la regola dei primi naturalisti e colonizzatori, che consisteva semplicemente nell’uscire dalla porta del tuo alloggio, di buona lena, e mettersi le gambe in spalla, fino alla laguna piena di ippopotami, coccodrilli, leoni e iene. Nonché ovviamente lui, il gigante buono per suprema eccellenza, l’individuo con proboscide che (dicono) non si scorderà di te.
Ma così come noi, turisti, camminiamo in giro per il bush, così da parte sua ha da sempre fatto pure l’elefante, alla ricerca di nuove fonti verdeggianti di sostentamento vegetale che tendenzialmente, vista la sua mole e grande fame, non durerebbero altrimenti molto a lungo. Piante come l’albero del mango selvatico (Cordyla africana) che si dice si trovasse, fin dall’origine, alla fondazione della loggia di Mfuwe, alla maniera degli arbusti sacri di città o castelli della fantasy contemporanea. Ora, non è detto che l’importanza di questo luogo, per una particolare famiglia di pachidermi locali, fosse già evidente all’epoca dell’edificazione. Può darsi che allora, la vecchia matriarca Wonky Tusk (zanna sbilenca) non avesse ancora avuto l’occasione di sperimentare un tale gusto sopraffino, oppure che semplicemente, temporaneamente impegnata con i suoi seguaci in qualche remota peregrinazione, non si fosse premurata di mandare un telegramma al capo dei cantieri. Fatto sta che all’improvviso, da un tramonto all’alba metaforica del nuovo Tempo, attorno a tale regalìa fruttata fossero sorte una certa quantità di barriere, di quel tipo che i piccoli bipedi tendono a definire “muro”. Mentre gli elefanti, se pure le notano, ci fanno poco caso. Stolidamente vanno per la propria strada, passandoci accanto, o se magari ne hanno voglia e modo, persino attraverso.

Mfuwe Lodge
La questione è stata fatta oggetto d’innumerevoli spezzoni documentaristici e programmi Tv, tra cui questo breve video del National Geographic.

La visita annuale degli elefanti alla loggia di Mfuwe è ormai una tradizione rinomata, come una sorta di rituale iniziatico per chiunque vada a lavorare in questo luogo più unico che raro. Mentre, immagino, ai turisti possa capitare di visionarla solo per un colpo di fortuna, visto come si tratti di un’evento dalla cadenza cronologica che può variare, sulla base di quando alla citata regina-elefantessa, conduttrice della società matriarcale tipica della sua genìa, venga quel particolare “languorino” oppure il desiderio di provare ancora una volta il vecchio percorso d’escursione immagazzinato, assieme a molti altri, nella sua capiente corteccia cerebrale. E il fatto è che tra l’altro, l’albero che dona il frutto delizioso sia tutt’altro che recintato, risultando accessibile da tutti i lati, tranne quello della lobby della loggia, guarda caso, scelto ogni singola volta da quest’ospite particolarmente impegnativa. La famiglia di Wonky, infatti, si compone a seconda dei casi di almeno altri due esemplari adulti, oltre a un numero variabile di cuccioli, sempre pronti ad addormentarsi a seguito dell’agognato pasto, diventando l’equivalente più grazioso di una sostanziale bomba ad orologeria. Nell’agosto del 2015, occasione mostrata nel video di apertura per esempio, al seguito del gruppo c’era anche un quasi neonato, potenzialmente il singolo animale più pericoloso dell’intera savana. Gli elefanti inferiori all’anno di età sono infatti del tutto scoordinati e incapaci di procurarsi il cibo senza aiuto, nonché nei fatti dipendenti dai propri genitori e/o compagni di branco, che diventano (comprensibilmente) molto protettivi nei loro confronti. E nonostante l’opinione collettiva li consideri animali estremamente buoni e pacifici, sopratutto perché erbivori, gli elefanti sono e restano piuttosto imprevedibili, più o meno come qualsiasi altro animale selvatico il cui ambiente è stato invaso dagli umani. In Kenya, in particolare, l’attacco reiterato dei campi coltivati da parte di branchi di elefanti di passaggio ha portato a notevoli tensioni sociali e politiche, fino al punto estremo dei contadini locali che impugnano le armi da fuoco, per contribuire, stavolta necessariamente, allo sterminio scriteriato di questi magnifici animali. Del resto, come potresti fare tu, amante a distanza della spropositata natura africana, a fermare un pachiderma?

Elephants breaking fences
Il tormento e la proboscide, la furia e l’estasi della rovina.

Ci hanno provato in molti modi, e questo video caricato da Lauren Evans, PhD dell’Università di Cambridge, è una prova tecnica del risultato dato da uno dei metodi più popolari: l’impiego di recinzioni elettrificate. L’efficacia, come si può facilmente osservare, risulta alquanto discutibile. La massa e il peso dell’elefante africano medio, nella realtà dei fatti, raggiungono eminenze tali che il suo semplice procedere ad un ritmo abituale, stolidamente indefesso nei confronti della supposta barriera, risulta sufficiente a sradicarne qualsivoglia punto di ancoraggio al suolo. Ancora prima che il dolore della scossa riesca ad oltrepassare la sua dura scorza, il pachiderma è in genere passato dall’altra parte, più arrabbiato ed affamato di prima. Inoltre il pachiderma medio ha un’intelligenza comparabile a quella di alcuni primati (ad esempio, può riconoscersi allo specchio) e l’ausilio di un’appendice di manipolazione tutt’altro che trascurabile, la sofisticata proboscide, che può aprire cancelli, frugare tra gli scarti, rovesciare i carichi pronti al prelievo. Un branco di elefanti che ti viene a fare visita, preziosa risorsa turistica nel caso della loggia di Mfuwe, può trasformarsi nell’incubo di chi quei luoghi deve coltivarli, per sopravvivere e guadagnarsi il pane quotidiano. Così, non è davvero possibile fare alcunché di nulla?
Beh, esiste una possibile, sperimentale soluzione. Nel 2013 la dott. Lucy King, lavorando presso la fondazione Save the Elephants, ha concepito un nuovo approccio al contenimento della problematica dei pachidermi senza il senso della proprietà privata, che gli ha consentito tra le altre cose di aggiudicarsi l’annuale premio St. Andrews per la Conservazione dell’Ambiente. La sua idea nasce da un’osservazione sul campo che si sta rivelando, a seguito di test approfonditi, veramente risolutiva: gli elefanti hanno, istintivamente, una paura folle delle api. Il miglior modo per indurli a cambiare strada sarebbe dunque, nella usa opinione, la costruzione sistematica di speciali barriere in legno e paglia, all’interno delle quali verranno posti degli alveari equidistanti, sfruttati tra l’altro per la produzione del prezioso miele. Davvero: sul sito della fondazione c’è persino il manuale informativo. Il concetto è molto più pratico di quanto potrebbe sembrare, soprattutto perché l’apicultura viene praticata da generazioni presso la maggior parte dei popoli africani, e molti degli stessi agricoltori vittime delle invasioni distruttive sono in effetti già forniti di almeno un’arnia o due. Sarebbe soltanto una questione, dunque, di scegliere il male minore. Cambiare in parte le proprie abitudini, investendo maggiormente in un’industria considerata ingiustamente secondaria, piuttosto che soccombere sotto il peso di chi altrimenti, il proprio percorso non lo devierà mai. C’è molto di più in gioco, che la semplice ora del tè inglese in prestigiose località turistiche, quando la sopravvivenza di un’intera specie, a torto o ragione, diventa l’opposto della convivenza uomini-animali.

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