L’eleganza tecnica dei cacciabombardieri europei

Mirage 2000

Basta guardare indietro, seppure brevemente, alle innovazioni tecnologiche di questo scorso secolo per rendersi conto che la globalizzazione non è fenomeno soltanto culturale. Il nuovo flusso dei commerci e la possibilità di trasmettere, da un lato all’altro della Terra, qualsiasi metodo scientifico verso il progresso, ha sostanzialmente appiattito l’approccio creativo nel creare soluzioni problematiche complesse. Ciò nel senso che, quando qualcuno, in qualsivoglia continente, progetta un nuovo tipo di motore, carburante, strumentazione di bordo per automobili o natanti, nel giro di appena qualche annetto saranno milioni le persone in grado di apprezzarne i vantaggi, magari sotto un nome ed etichette differenti. Perché questo vogliono le leggi del mercato: che chi si ritrovi con le chiavi in mano di una valida invenzione, sia al più presto investito di un flusso di denaro tale da produrla in quantità pressoché illimitate, o in alternativa, ne ceda il controllo a qualcun altro di più svelto, nonché abile a gestirne i presupposti. Esiste, tuttavia, una significativa eccezione a tale regola, che si estende nell’intero areale dello scibile che risponde al nome spaventevole e glorioso della guerra. Fin dallo spegnersi dei fuochi apocalittici della seconda mondiale, ma in un certo senso pure prima, è esistita questa consapevolezza tra i potenti che il disporre di armi potenzialmente devastanti non era abbastanza per sentirsi al sicuro; occorreva, parimenti, che il proprio nemico non potesse dire altrettanto. Questo perché nei cieli e sui campi di battaglia dell’ultimo secolo, sostanzialmente, si è raggiunto un grado di possibile devastazione tale che nemmeno il più prudente ed abile dei generali, coadiuvato da soldati all’avanguardia, potrebbe mai riuscire a risparmiare gravi danni al territorio, le sue risorse, i suoi abitanti. Così un conto è il tipico contratto di lend-lease, per cui i paesi alleati si forniscono a vicenda gli aeromobili, ma per ciascun corpo d’armata dedito alla protezione dei cieli il velivolo migliore sarà sempre, se presente, quello progettato in situ, sulle specifiche esigenze e con il massimo contenuto tecnologico a disposizione. Gli aerei bellici, come del resto le più famose armi da fuoco o carri armati, non soltanto raggiungono l’apice del progresso grazie ad un sforzo continuo di menti eccellenti, ma dovranno farlo, alla stessa maniera di bruchi che percorrano la cima di un arbusto, lungo quelle numerose diramazioni che sono i paesi contrapposti. La scena geopolitica è in continuo mutamento: al punto che talvolta può bastare poco, come la scintilla di un accordo commerciale andato per il verso sbagliato, o l’offesa percepita da una particolare decisione ai vertici di un complesso accordo diplomatico, perché si scaldino i motori a ugello e venga l’ora di partire, pattugliando attentamente i territori di confine. E se dall’altra parte, anche “Loro” saranno in grado di farlo, per lo meno “Noi” sapremo questo: i nostri aerei sono migliori. Che siano russi, americani o frutto delle occasionali quanto fruttuose collaborazioni tra le principali nazioni del vecchio continente, ciascun velivolo ha dei punti forti che riescono a distinguerlo dai suoi rivali. L’apporto finale del resto, ciliegina sullo stato dell’arte di cui parlavamo poco sopra,  sarà sempre frutto del coraggio e delle doti del pilota.
Mani e menti umane come queste alla guida di ottimi caccia Mirage 2000, idealmente, tanto perfettamente e poeticamente rappresentate in una sequenza lunga 3 minuti e mezzo, creata a partire da diversi momenti del film francese del 2005, Les Chevaliers du ciel (Gérard Pirès) ispirato alle avventure fumettistiche di Tanguy e Laverdure, eroi che spopolarono tra Belgio e Francia nel corso degli interi anni ’60. Il fatto che l’intera appaia tanto realistica, persino in quest’epoca di grafica computerizzata estremamente pervasiva, non dovrebbe in effetti sorprendere nessuno, visto come alcune elle scene del film siano state realizzate grazie all’impiego di un serbatoio da ala per aerei a reazione appositamente modificato, impreziosito da un’ampia serie di telecamere sull’intero corpo della sua cilindrica esteriorità. Fino al momento dell’incredibile battaglia su Parigi, girata con il permesso dell’amministrazione cittadina durante le annuali celebrazioni per la festa nazionale della presa della Bastiglia, con una notevole quanto rara corrispondenza tra il momento effettivo della messa su pellicola e il teorico teatro dello scontro immaginifico nei cieli; gli aerei che sfrecciano in formazione serrata, vibrano delicatamente sopra l’orizzonte. Le figure geometriche da loro disegnate sul confine delle nubi: il susseguirsi di una simile sequela di momenti potrebbe costituire, così messa a parte dalla trama e dai dialoghi del film (che possono piacere o meno) la migliore rappresentazione di quello che l’uomo in volo è riuscito a rendere possibile nei nostri giorni, in cui neanche più esiste una connessione fisica tra gli alettoni e la cloche di comando. Tutto è automatico, robotizzato, oltre ciò che possa dirsi raggiungibile nel corso di una vita sola. La fisica applicata, sopra l’ingegneria, sopra il realistico bisogno di proteggere un’identità nazionale. E in cima alla piramide, sopra un’antenna sottile quanto la punta di uno spillo, lui che lancia il suo segnale, colui che affronta “Due ore di noia…” Seguite dai “Quindici secondi di assoluto terrore!” Il moderno pilota da caccia o attacco al suolo.

Panavia Tornado
Il Mirage 2000 nacque da una costola di quello che sarebbe successivamente diventato il Panavia Tornado, il celebre aereo da attacco al suolo italiano-tedesco-inglese degli anni ’70. La Francia aveva l’abitudine di tirarsi fuori dopo le prime battute di simili progetti e rivolgersi direttamente alla Dassault, una strada che percorse nuovamente negli anni ’80, passando dall’Eurofighter al Rafale.

Nel mondo dell’intrattenimento a base realistica, l’aereo da guerra è un soggetto particolarmente amato. Il fatto che debba esserci un singolo individuo, per quanto coadiuvato da un severo e lungo addestramento, a controllare ciò che rappresenta una significativa fetta dell’intero potenziale bellico del suo paese, alla guida di un aereo dal costo di molti milioni euro oppure dollari (e così via) è un concetto che può facilmente sbilanciare l’immaginazione. Così eccoli, nei cieli, le migliori approssimazioni realmente esistenti del concetto beneamato di un supereroe. Allo stesso tempo dotati della capacità di volare, come pure del fulmine devastatore asservito al bisogno di fare la differenza, ma non per gentile concessione di Zeus o gli altri dei dell’Olimpo, bensì al servizio di complesse scale di valori, o per meglio dire una catena di comando. Che non costringe, bensì connota, segna il passo ed il bisogno dell’azione.
Avvenne così, verso la metà degli anni ’60, in piena guerra fredda, che due delle maggiori potenze europee iniziassero a sentirsi prese in mezzo. Da una parte gli Stati Uniti, con i vecchi ma temibili F-2 Phantom che, nonostante tutto, avevano acquisito l’assoluta superiorità aerea in Vietnam, mentre dall’altra l’incombenza ponderosa della possente URSS, con le continue iterazioni dell’azienda Mikoyan Gurevich verso il perfezionamento del pericoloso MiG (proprio in quegli anni entrava in produzione la versione 25, un intercettore monoposto con ala a freccia) portarono Inghilterra e Francia ad un accordo di joint-venture per la progettazione e messa in opera del primo AFVG – [l’aereo] Anglo-Francese a Geometria Variabile, un’idea per un velivolo che fosse al tempo stesso in grado di volare a velocità supersoniche, imitando la forma dei jet russi e americani, ma anche di alterare il posizionamento delle sue ali, per approcciarsi in volo radente ad obiettivi siti in pieno territorio nemico. Non è difficile comprendere l’importanza attribuita ad una simile dote in un periodo come questo, durante il quale l’intero clan dei potenti appariva convinto che da un momento all’altro si sarebbe iniziato il sistematico bombardamento nucleare dei più grandi agglomerati urbani del pianeta. Avvenne tuttavia, nel 1967, che una Francia incapace di mettersi d’accordo sui dettagli del progetto decidesse di procedere per suo conto, affidando un significativo appalto alla sua compagnia di fiducia, la Dassault Aviation di Parigi. Quest’ultima, lavorando alacremente sui dati pre-acquisiti, stese il progetto per un aeromobile del tutto senza precedenti, il cosiddetto ACF (Avion de Combat Futur) che era tanto sofisticato da dover necessariamente essere venduto in concessione pure all’estero, per poter recuperare almeno una parte degli ingenti investimenti produttivi. In parallelo, ispirandosi al successo avuto dal nuovo F-16 statunitense, posero le basi di una versione più piccola e meno costosa del velivolo, concepita primariamente con lo scopo di fungere da intercettore. Tale aereo fatto decollare per la prima volta nel 1978, un mono-motore con ala a delta molto sottile, stabilità dinamica e sistemi di comando fly-by-wire, è ancora quello che vediamo, con molti e significativi aggiornamenti, nel film contemporaneo di Pirès, ai comandi degli agenti 007-avventurieri-piloti Marchelli e Valois, ersatz dei due fumettosi antesignani già citati.

Eurofighter Typhoon
L’Eurofighter Typhoon, frutto della collaborazione tra Italia, Inghilterra, Germania e Spagna, è entrato in servizio nel 1994. Letteralmente sconosciuto ai produttori cinematografici, probabilmente trovò la sua principale rappresentazione mediatica nell’omonimo videogioco del 2001, seguito dell’ottimo Total Air War dei Digital Image Design.

Un aspetto distintivo di questi aeromobili frutto di progetti internazionali era la loro capacità di adattarsi a teatri e situazioni molto differenti tra di loro. Diversamente da molti dei migliori e più famosi jet statunitensi o russi, il Tornado e il Mirage, con i loro due successori, l’Eurofighter e il Rafale, furono concepiti fin dalle primissime battute come caccia multiruolo, in grado di assolvere a ruoli ibridi di supporto alle truppe di terra, attacco in profondità o pura e semplice superiorità aerea. È interessante notare come la questione di un singolo aereo da guerra di punta in esclusiva per ciascuna superpotenza tenda facilmente a scomparire, nel momento in cui i pesci più grossi della scena internazionale dispongono di mezzi troppo superiori, sufficienti a vincere sui campi di battaglia psicologici, prima ancora che in quelli effettivi. La versione più avanzata del concetto di un jet bellico puramente europeo, l’Eurofighter Typhoon dei primi anni 2000, aveva raggiunto uno stato di assoluto perfezionamento produttivo, al punto che l’aeromobile nasceva dall’unione di componentistica proveniente dai quattro diversi paesi aderenti al progetto, venendo poi assemblato nelle fabbriche di ciascun committente. Considerando che la produzione di uno di questi velivoli costa approssimativamente 62.900.000 €, e che in totale ne sono stati messi in opera circa 500, di cui una parte venduti all’Austria ed all’Arabia Saudita, si può comprendere l’ingente portata economica di un simile progetto tecnologico. Un’impresa difficilmente replicabile all’interno di un territorio disunito come l’Europa, specialmente nel teatro economico attuale. Fattore forse determinante nella scelta attuale che ha portato Italia, Inghilterra e buona parte del resto dell’Europa, fra le critiche di metà del mondo politico coinvolto, ad aderire al discusso accordo per l’importazione degli F-35 della Lockheed Martin statunitense, che ad oggi presentano ancora alcune problematiche progettuali e di funzionamento, gioiosamente e velenosamente ingigantite dai canali mediatici massificati.
Viene quindi da pensare che la guerra, in senso tradizionale e non fluido, da il frutto sostanziale della divisione. Il confronto irreparabile tra due ordini del mondo e delle cose, che non può essere davvero rinsaldato, a meno di sostituire in maniera sistematica il concetto di quello che sia accettabile, o giusto, per un popolo e i suoi governanti (idealmente) eletti. Una situazione in cui ciascuna delle parti coinvolte, spinta innanzi dal bisogno di prevalere, persegue l’obiettivo per suo conto, finalmente, invece di adeguarsi allo status quo del minimo comune denominatore. È innegabile, ad esempio, che sia stata proprio l’ansia di competere tra superpotenze, attraverso un trentennio di fervide sperimentazioni, a portare finalmente l’uomo sulla Luna. Tanto per piantare una bandiera? Forse, non proprio. Peccato solo per quei “piccoli” dettagli, quasi insignificanti, della spietatezza incivile a margine, l’odio tra i simili, la violenza spropositata contro il prossimo vestito con una divisa differente. È chiaro il fatto che il processo vada, prima o poi, perfezionato.

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