Il problema di chi corre coi tori

Tourada

Parte del corpus di tradizioni secolari dell’isola di Terceira ma poi mutuata dall’intero arcipelago delle Azzorre, la tourada à corda è sostanzialmente un diverso tipo di corrida, in cui nessun toro viene intenzionalmente leso, ma sono piuttosto gli uomini più coraggiosi del paese, i loro figli ed alcuni turisti dal notevole entusiasmo, a finire gioiosamente calpestati, spinti contro un muro, percossi con trasporto dalle punta delle corna del bovino. Le quali vengono oggigiorno, per fortuna, racchiuse da involucri o tappi di cuoio, concepiti appositamente per fermarne la penetrazione nelle carni del malcapitato di turno. Per fortuna, dico, perché almeno a giudicare da questo compendio d’episodi accidentali messo assieme dal fotografo Gabriel Alves Vieira, che si è guadagnato dal 2012 oltre 9 milioni di visualizzazioni in crescita costante, non è affatto insolito che in questo evento vinca il toro. Innanzi tutto perché, un po’ come nelle celebri fiestas di San Firmino a Pamplona, la corsa non si svolge in un’arena, bensì lungo l’intero corso principale delle maggiori città oltre quelle coste, in un vero pandemonio di schivate, salti e tentativi malgestiti di gettarsi a terra, con l’illusione che la bestia sia più incline a correre dietro le persone in movimento. Il che talvolta è vero, ma in determinati casi… Al signore fatto rotolare sul selciato del caffè d’angolo, a quell’altro con la schiena alla fontana, mentre l’animale tenta di spingerlo col muso dentro la scultura (ehm, scusa per le punte) all’incredibile frangente di chi scappa in acqua, quelle volte in cui il tragitto si conclude in spiaggia, ma le corna lo raggiungono lo stesso, perché i quadrupedi sanno nuotare fin da giovani e persino in tarda età. E poi all’uomo la cui caviglia resta impigliata nella corda, trasformandolo nel contrappeso odiato dell’essere terrorizzato e in fuga; vorrei chiedere, vi state divertendo, persino adesso? È una questione dalle approfondite basi sociologiche, quella che trova genesi nel desiderio di mettersi talvolta in massima difficoltà. O come in questo caso, un effettivo stato di pericolo, un cui può bastare un passo falso, un’attimo di distrazione, per finire vittime sacrificali del frangente costruito dall’ansiosa collettività. Così ogni anno, nelle Azzorre come in Spagna, c’è qualcuno che paga per tutti, sacrificando l’incolumità del giorno per costruire il mito di una corsa senza tempo e forti intenti commerciali, parte di una scala di valori dolorosamente scollegata dal presente. E forse soprattutto per questo, tanto spesso oggetto delle critiche più fervide ed accalorate.
La corsa coi tori è una tradizione antica quasi quanto l’addomesticazione di questa genìa così fondamentale per la nostra dieta, che viene convenzionalmente fatta risalire all’epoca dell’antica civiltà minoica, poi quella greca e dei romani. Tutti conoscono il celebre affresco della taurocaptasia, ritrovato sulla parete est del palazzo di Cnosso, con i tre giovani che saltano attorno a questo lontano cugino dell’amato minotauro, disegnato luuuungo come un cane bassotto e con le gambe veramente molto, molto corte, forse per meglio riempire lo spazio blu della composizione decorativa. Si tratta forse di una delle immagini più note della prima epoca classica, databile fino XVII-XV secolo a.C, la cui composizione cinematica esemplifica uno stile quasi fumettistico e letteralmente ininterrotto fino ai nostri tempi, grazie al quale il limitarsi a due sole dimensioni, e un singolo fotogramma, non ha mai potuto impedire agli artisti migliori di trasmetterci i momenti maggiormente rappresentativi delle loro epoche distanti. E non c’era allora, forse, un attimo più rappresentativo di questo: il bisogno di misurarsi con la forma più prossima della natura infuriata, lo sbuffante, scalpitante essere dal manto nero, bianco o a macchie, generalmente in dei contesti attentamente codificati, come feste religiose o spontanei raduni degli spettatori sugli spalti accidentali di una piazza (non più) gremita. Ma c’è dell’altro: esistono diverse teorie secondo cui questo stile per eccitare e infastidire l’animale, attraverso gli schiamazzi e il movimento caotico di un gruppo di persone, fosse stato adottato da principio come approccio pratico a spronarlo innanzi, con lo scopo di raggiungere quanto prima il luogo dell’esposizione, del mercato o della vendita imminente. Accadde poi che alcuni degli astanti,  in determinate antiche città mediterranee, iniziassero a lanciarsi sulla strada della bestia, col dichiarato scopo di mostrarsi privi di paura. E se lo fa uno, ben presto saranno due, quindi tre e…Il resto riecheggia nel muggito della Storia.


O per meglio dire, costituisce un corollario poco chiaro ad Essa, poiché in effetti nessuno conosce la data esatta della prima corrida dell’area latina in quanto tale, ovvero l’ulteriore evoluzione della corsa, in cui i tori, un volta raggiunta la piazza, venivano immediatamente uccisi come punizione per il danno causato ai più imprudenti o distratti dei partecipanti. Benché esista il nome di un personaggio del diciottesimo secolo, Francisco Romero di Ronda (Malaga) che secondo la leggenda sarebbe stato il primo uomo appiedato ad osare di chiedere l’onore di dare il colpo di grazia all’animale, un ruolo prima riservato unicamente ai nobili a cavallo. Iniziando la tradizione del mitico guerriero, spada e manto rosso nelle mani, in grado di sfidare la più prossima versione fisica del drago leggendario, senza l’ausilio di zoccoli con cui fuggire o mantenerlo a una valida distanza di sicurezza.
Ora, questo specifico frangente, a partire dal quale venne a formarsi l’attuale squadra operativa della corrida spagnola, con un matador, due picadores (lancieri) tre banderillos (portabandiera) e un mozo de espada (aiutante di spada) non ebbe mai a verificarsi nell’area portoghese, con il risultato che la rispettiva interpretazione moderna dell’eterna battaglia coi tori prendesse una strada significativamente diversa. In cui è ancora il cavaleiro, assistito da una schiera d’aiutanti incaricati di distrarre l’avversario inferocito, a costituirsi protagonista della scena, mentre l’obiettivo, piuttosto che dargli il colpo di grazia, diventa piantargli quattro bandarilhas, ovvero sottili giavellotti, nel dorso. Un’esperienza decisamente traumatica, ma quasi mai letale. Che per di più spesso vale, alla creatura, un esenzione dal suo destino predeterminato: la mannaia e poi la tavola da pranzo, come ciascun singolo consimile dei nostri giorni. Nessuno. Escluso.

Toro rompe el cajon
In questa scena, probabilmente ripresa a Pamplona, viene mostrato che succede quando un corno del toro riesce in qualche modo ad incastrarsi in una piccola apertura del cajon, il container impiegato per il suo trasporto… Aprendolo. Sembra di assistere ad un nuovo episodio di Jurassic Park.

Nella tourada à corda delle isole Azzorre, che sarebbe nata verso il termine del sedicesimo secolo e poi accorpata coi festeggiamenti religiosi per la canonizzazione di Francesco Saverio e Ignazio da Loyola nel 1622, le cose vanno in un modo ancora differente. Un aspetto interessante, ed in effetti unico a memoria d’uomo, è che la corsa non si conclude con l’arena e il conseguente spettacolo di sangue, riuscendo piuttosto a costituire l’unico pretesto di se stessa. Le regole sono poche, ma precise: una squadra di fino a sei toreri in abito tradizionale, detti i pastores, si occupa di trattenere l’animale grazie all’uso di una lunga corda, con l’obiettivo teorico di non farlo sforare dalle righe. Benché, prendendo in esame il video d’apertura, sembra che la loro mansione consista in effetti solamente nel trattenerlo all’interno di un’area definita, mentre incornamenti o stragi varie, eventi tutt’altro che insoliti, vengono considerati fair game.
Va pure considerato che in quegli anni turbolenti, con la crisi dinastica del regno di Portogallo dovuta alla morte senza eredi di re Sebastiano I, le Azzorre si ritrovarono a svolgere un ruolo chiave nella storia di quel paese, l’unico che molti anni prima aveva avuto il coraggio di colonizzarle. Mentre Filippo II d’Asburgo, a capo dell’Impero di Spagna, già si arrogava il controllo della neonata Unione Iberica, furono soltanto gli abitanti della locale città di Agra (successivamente ribattezzata “A. do Eroismo”) a resistere ai suoi messaggeri, ponendo le basi di quella che sarebbe stata, il 26 luglio del 1582, la prima battaglia nell’Atlantico tra i poderosi galeoni dell’epoca dei commerci. Da una parte il prototipo della futura Invincible Armada, dall’altro i corsari del condottiero fiorentino Filippo di Piero Strozzi, al soldo della sempre più preoccupata corona francese. E il popolo poteva starsene a guardare? In qualche modo, tali presupposti d’ostilità internazionale filtrarono fino alle coste. E già i tori sbuffavano di un forte desìo di riscossa.

La Bola
Se soltanto Francisco Romero, primo dei toreri, fosse vissuto per vedere l’insegnamento che abbiamo tratto dalle sue imprese! Chissà se la sua anima rotola, come la sfera pietrosa di Indiana Jones…

Il rapporto conflittuale tra le dinastie, così come l’eterna rivalità dei potenti, non può far molto per condizionare le pulsioni e la passioni di un popolo. Così quegli stolidi abitanti delle Azzorre, sostenuti da un’economia quasi autonoma di agricoltura, pesca ed allevamento, continuarono a praticare le usanze del continente, mutuate assieme alle altre cognizioni culturali degli antichi marinai di Enrico il navigatore, principe di Sagres (1394-1460) leggendario scopritore di questo luogo remoto. Ritrovare un pezzo di Portogallo a 1300 Km di distanza dall’Europa (per comparazione, siamo a “soli” 1925 da Terranova, nel Canada settentrionale) non fa che parlare ulteriormente della stolida capacità e integrità dei loro abitanti, protagonisti di una propria tauromachia, senza tempo né limiti territoriali. E come allora, con la prima delle molte vittorie di una Spagna destinata a conoscere la gloria sui campi di battaglia e tra le onde di un mondo imperiale, così adesso, tra le voci pubbliche dei più sinceri e convinti amanti degli animali: i tori di Terceira continueranno a correre, ancora per qualche tempo, facendo di quelle corna un’idea. Problematica. Un nodo gordiano da sciogliere, ancora una volta, in mezzo al rombo di cannonate distanti.
Si stima che 3000 tori muoiano, ogni anno, al servizio delle corride spagnole. Nelle Azzorre, tavole imbandite a parte, neanche uno. Caspita, che record!

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