Castelli d’acciaio, sfuggenti sul mare

Gretha

Si chiama Grande Gretha. È la sagoma vagamente definita delle alte e ultramondane cime di Avalon, torri magiche nel vento, a riecheggiare nei miti e leggende di molteplici e inspiegabili presenze. Verticalità, piuttosto che velocità: si conosce molto bene, per lo meno nell’istinto, la forma naturale di quell’entità che deve poi, spostarsi. Proporzioni solide, una base ampia o quanto meno ben proporzionata. Quattro zampe ben distinte, per marciare, oppure ruote, se si parla di un costrutto artificiale. È la sagoma che comanda. Perché una cosa molto alta e stretta, normalmente, teme i terremoti. E figuriamoci a viaggiare per le strade! Così comparativamente, nel mondo della fantascienza che osa differenziarsi, abbondano giraffe; non c’è acciaio, cemento armato, pykrete che possa invero resistere al suo stesso peso, se svettante, quando in movimento, tra le nubi o tra i deserti dei pianeti della fantasia. A meno che… Immaginate un mondo polveroso ricco di un’imprescindibile risorsa, necessaria per avventurarsi tra le stelle (o Dune) percorso dall’alba al tramonto da vistosi grattacieli semoventi, ciascuno forte dei suoi cingoli, costruito ed abitato dagli umani. Con al posto della tromba delle scale, una colonna cava, abbastanza vasta, ed alta, da ospitare una trivella colossale; quali sarebbero i vantaggi? Possibilità di un certo grado d’autosufficienza, certamente, nessun pericolo di essere inghiottiti dalle bestie della notte. La certezza di non perdersi, lasciato temporaneamente quel rifugio, vista l’eminenza delle sue propaggini ulteriori, la potenza delle antenne superiori. E buche più profonde, il che significa: la maggiore acquisizione della Cosa. La quale Cosa, guarda Caso, piace molto pure a noi. Esseri materiali di un mondo fatto di atomi immanenti: eppure, c’è una Spezia che ci nutre, noi come i Navigatori di quell’universo immaginario. È il petrolio, laggiù nel buio del profondo, sempre più lontano a dirti che se vuoi, puoi.
1961: la Blue Drilling Company, sussidiaria della Shell, sta trasportando in posizione nel Golfo del Messico la sua piattaforma sommergibile Blue Water Rig No.1. È conforme, un tale ingombrante dispositivo, al progetto più diffuso e utilizzato di quell’epoca: si trattava essenzialmente di una chiatta con due parti separate e diversamente estensibili, l’una fatta per essere innalzata al di sopra delle onde, l’altra, quella più pesante, da calare fino al fondo dell’Oceano, per scavare. Oltre ad una, tre, quattro imbarcazioni, per trainarla; come da convenzione ingegneristica di allora, infatti, la piattaforma non aveva dei motori suoi. Benché fosse flessibile per concezione. Esaurito un giacimento, quindi l’altro, la base di trivellamento era di nuovo sollevata, le zavorre abbandonate fino alla riemersione di vistosi galleggianti. E quindi via, verso nuove scorribande perforanti. Ma gli operatori dell’impresa, col ripetersi di tali gesti, giunsero davvero gradualmente a un’importante osservazione: le onde non gli fanno quasi nulla, una volta zavorrata. Era in effetti talmente grande e pesante, la loro imbarcazione-madre, che al primo immergersi dei galleggianti, ben prima di toccare il fondale, già pareva una scultura. E in effetti il Blue Water Rig No.1 non vedeva l’ora di inviare fino a destinazione il lungo dito, la trivella senza fine di suzione. Così disse qualcuno: “Sapete che vi dico? Questa volta, proviamo a non farla scendere del tutto.” E strano a dirsi funzionò, dando l’origine a un’intera nuova classe di natanti: le imbarcazioni semi-sommergibili.
A partire da quell’evento spesso ricordato, l’estrazione petrolifera offshore fu grandemente modificata, passando dal concetto di piattaforma d’estrazione adagiata sul fondale a un altro tipo della stessa cosa, tenuta in posizione unicamente dalle sue àncore (almeno due per vertice del quadrato) e sempre pronta per andare altrove, proprio sulla sola forza di quel carburante che lei stessa estrae.

La Grande Gretha della OOS International, qui ripresa dal fotografo aereo Tommy Chia con la sua GoPro, appartiene in effetti alla classe di imbarcazioni pensate per una funzione collegata, ma diversa. Sfruttando lo stesso principio delle piattaforme petrolifere mobili, quell’innata stabilità che proviene dalla forma, al posto della trivella ospita un eliporto e due gigantesche gru gialle indipendenti, ciascuna in grado di assistere un cantiere in alto mare, per creare, ad esempio, un altro gigante del tutto simile a lei. Nella brochure ufficiale, disponibile sul sito della compagnia, viene mostrata mentre assembla una sorta di struttura su palafitte, assai probabilmente un’altra delle multiformi soluzioni usate nel campo sempre mutevole dell’estrazione di risorse.
Benché le semi-sommergibili, come si può scoprire a seguito di una rapida ricerca, possano svolgere anche altre mansioni, come il supporto a spedizioni scientifiche verso le falde oceaniche continentali, la loro costruzione e gestione resta talmente dispendiosa, così complessa, da fargli trovare una valida collocazione unicamente in quell’industria estremamente redditizia del profondo. Almeno, finché dureranno i giacimenti raggiungibili con tali metodi, in tempo utile da giustificarne il varo.

Scarabeo 9
L’ultima ripresa pubblicata online da Tommy Chia risale ormai a più di un anno fa. Chissà quando tornerà a coinvolgerci con degli angoli di visuale tanto accattivanti…

Questa è Scarabeo 9 della Frigstad Engineering Ltd, in grado di trivellare in acque profonde oltre i 3.500 metri. E viene da chiedersi quanto più avanti, lontano nelle viscere inimmaginate, possa spingersi quello spiedino senza fine. È questo, sostanzialmente, il punto forte della soluzione semi-sommergibile: l’aver svincolato una struttura simile, così sconfinata e possente, dal bisogno pre-esistente delle fondamenta. Annullando i condizionamenti residui nella sua collocazione, ovvero la necessità di restare relativamente prossimi alla riva, per poter poggiare il plinto sul fondale, e soltanto poi, bucare. Inoltre, poiché simili piattaforme, una volta eliminata la zavorra ed esposti all’aria i galleggianti, si trasformano in una sorta di titanici catamarani, vengono sempre dotate di una serie di propulsori azimutali, ovvero eliche sporgenti verso il basso, generalmente racchiuse in un tubo fisso (lo statore) e in grado di ruotare a 360°. Ciò fornisce alla piattaforma non soltanto un certo grado di mobilità, ma anche l’agilità necessaria per manovrare, senza nessun tipo di assistenza, nella posizione designata. Pare di udire l’ingegnere della Shell che ebbe l’illuminazione, appena 50 anni fa: “Quel petrolio sarà mio!” Eppure, dopo tutto, l’invenzione non è mai stata attribuita a lui, che piuttosto resta senza nome.
Il primo a concepire un simile balzo d’immaginazione, di mega-strutture galleggianti ed unicamente ancorate sul fondale, fu piuttosto l’americano Edward Robert Armstrong e per la prima negli anni ’20, quando si aspettava con trepidazione un temerario che potesse effettuare la prima trasvolata sull’Oceano Atlantico. Pareva inevitabile, a quei tempi, che in un tale spazio sconfinato venissero introdotte alcune infrastrutture di rifornimento, come piste misteriose in mezzo al nulla, analogamente a quanto fatto con le pompe di benzina appena sorte, un po’ ovunque, a supporto della neonata industria automobilistica. La sua proposta fu denominata seadrome. Qualche anno dopo, era quasi riuscito a convincere il governo degli Stati Uniti quando, con il prolungarsi della seconda guerra mondiale, vennero costruiti i primi bombardieri strategici, in grado di rendere una tale impresa ingegneristica del tutto inutile.
Eppure persino oggi, mentre attraversiamo i flutti senza fine sulle comode poltrone di un jet di linea, dovremmo ricordare le strutture semi-sommergibili di trivellazione. Oltre a quella Spezia nerastra e maleodorante, estratta dai Sand Crawlers del nostrano Tatooine. Per sempre? Almeno fino al sopraggiungere del primo Shai Hulud, mostro delle sabbie senza tempo. Verme-araldo dell’esaurimento (delle fonti di energia non rinnovabile…)

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