100 cameriere giapponesi per un singolo pancake

100 maids

Qual’è il meglio, il non-plus-ultra? Una buona colazione cucinata secondo i crismi migliori delle pratiche civili, attentamente cotta sopra il fuoco: pancake, la frittella saporita. Ma il come certe volte supera il perché, fino alla perdita del senso della misura… Un giorno Genghis Khan, riposandosi dall’ultima delle sue terribili campagne militari, sorseggiava rumorosamente il suutei tsai nella sua splendida yurta, fatta con le pelli di duecento capre tibetane. D’un tratto, come colto da un’ispirazione, poggiò rumorosamente quella pesante tazza sopra il prezioso tavolo di legno zebrato, saccheggiato da una stazione di scambio sul Gandhara e ormai macchiato da mesi di schizzi di té lattiginoso. Scostate con gesto imperioso le due falde dell’ingresso, fece un passo sotto il sole e il vento delle steppe ormai quasi cangianti, al rischiararsi fervido dell’alba piena di opportunità. Quindi si voltò a sinistra: schiere di cavalli, colonne di fumo e i suoni contrastanti di quel vasto accampamento, archi, spade, lance e mazzafrusti che si scontrano tra loro. Guardando invece verso destra, incrociò lo sguardo un po’ perplesso di Ganzorig, la sua guardia personale: “Amico mio.” Disse il grande condottiero: “Qual’è, a tuo parere, il meglio della vita?” Spostando tutto il peso sopra il piede destro, poi quello sinistro, l’altro si accarezzò per una, due, tre, quattro volte la lunga barba. Infine,  spalancando gli occhi disse sorridendo: “Mio Khan! Le vaste pianure incontaminate, un cavallo rapido che risponda subito ai tuoi desideri, un falco sopra il polso da inviare a ghermire la tua preda!” Ma Genghis, dall’alto del suo metro e novanta, già scuoteva la testa in un turbine di ciocche fluenti: “No, per tutte le frecce acuminate!” Fece tonante: “È distruggere il nemico, vederlo strisciare ai tuoi piedi. Portargli via ogni ricchezza mentre ascolti il pianto sconsolato delle sue donne.” Un rivolo di saliva, assai probabilmente, a quel punto sottolineava il rictus maligno dei suoi occhi iniettati di sangue.
Soprassedendo sull’effettivo verificarsi di questo preoccupante aneddoto, narrato nel testo storiografico G.K: Emperor of All Men (Harold Lamb – 1936) e poi riutilizzato senza problemi particolari di adattamento nel film fantastico Conan il Barbaro diretto da John Milius (1982) è indubbio che tale citazione possa essere alquanto propedeutico ad una migliore comprensione, per inferenza, di uno dei più crudeli dominatori dell’epoca pre-moderna. Colui che fece sterminare, secondo stime relativamente accreditate, circa l’11% della popolazione mondiale, e che poi mise al mondo personalmente tanti figli da essere, ritengono gli stessi visionari bene informati, l’antenato di almeno uno su duecento di noi, doveva indubbiamente essere dotato di una certa tendenza al bipolarismo e agli strani vezzi del momento, quanto meno per metabolizzare tali e tante gesta sanguinarie. Indubbiamente, fu un uomo che sapeva godersi la vita, pur se ne spegneva molte, sulla punta spietata della sua incredibile ambizione.
Se oggi, ipoteticamente, dovessimo ispirarci a lui…. Goderci ogni momento come fosse l’ultimo, esaltare ogni sentimento: ridere come iene, piangere quanto le cascate di Hukou, meditare come la nube cinerea del vulcano di Nantai; quale sarebbe l’inizio della nostra giornata? Come esprimere, in un semplice momento, il desiderio incontenibile dell’uomo di affari, che sempre tende a dominare non soltanto la sua vita, ma il mondo stesso…

In Giappone, quell’unico paese che fu tanto forte, e/o fortunato (grazie, divina Amaterasu!) Da resistere alla furia degli immediati discendenti del Gran Khan, c’era una visione differente della guerra. I “crudeli” signori dei samurai, che pur di certo non si facevano problemi a torturare, decapitare etc, portata a compimento l’opera di conquista, si ritiravano nella grande dimora del proprio antico clan. E fra opere d’arte centenarie, versando dalla tazza frutto delle mani di un maestro di ceramiche, sorseggiavano bevande mistiche, mentre l’arte si compìva tutto intorno a loro. Danzatrici con ventagli, musica del koto, opere pittoriche o magnifiche poesie. Spade appena ripulite dal sangue, delicatamente esposte innanzi a ricchi paraventi decorati.
Se allora mangiavano qualcosa, nel frugale del salone del castello, anche quello, indubbiamente, era il frutto di sapienza e tecniche particolari. La grazia estetica era il maggiore dei loro ingredienti. Il più amato e necessario, come ancora oggi, nel sushi e nel sashimi

Flavor Stone
Frittelle che corrono come le anguille: questo è Flavor Stone, ver. infomercial

Invero non saprei chi sia, l’uomo canuto e di eccezionale dignità che costituisce, con il suo pantagruelico levéè, la star della pubblicità inclusa in apertura. Mirata a far conoscere i meriti dei tegami della serie Flavor Stone, che grazie a un “sistema multistrato” con “particelle di sapphire-non-stick” permettono di cuocere qualunque cosa senza un minimo timore di nefaste conseguenze. Nulla si attacca, mai, per sempre: ci cuoci le lasagne senza il forno. Ci arrostisci il pollo senza usare l’acqua. Tutto è possibile nel regno della tracotante tecnologia. Addirittura che, per dare un senso a tale vasto potenziale, non si cuocia il proprio pancake in una singola padella, bensì all’interno della moltiplicazione plurima di tale cosa. Dieci, venti, cento pentole, ciascuna usata per pochi secondi, in quanto: “Nulla è davvero situazionale in questo mondo di sublime impermanenza.” Ne sia prova, seppure si ritiene necessaria, il susseguirsi inarrestabile delle stagioni.
Così nasce forse, chi può dirlo, l’ultima bizzarra scenetta pubblicitaria dall’Oriente, realizzata con l’aiuto e la partecipazione di almeno un paio di gruppi musicali del genere teen idol, nello specifico le Chu-Z e le AmoreCarina (un sempre lusinghiero italianismo). Qui agghindate come fossero uno stuolo di cameriere in costume francese e perfettamente organizzate, neanche fossero un plotone militare. O forse la manifestazione del puro spirito di un maestra delle ombre? Il potere dell’ubiquità che la tradizione riservava ai ninja, in grado di replicarsi all’infinito per confondere il nemico. L’una che passa all’altra, ancora e ancora, finché lo shogun aziendale, forse il primo cittadino, ministro o il grande generale di ragazzine, possa ricevere l’ostia quotidiana, seduto al tavolo dell’estrema auto-soddisfazione.
Ma naturalmente, condottiero pure se per gioco, non puoi attenderti il controllo assoluto senza neanche un grammo d’ironia. Di Khan ce n’era uno ed era il capo. Mentre la tua, di testa, rassomiglia sempre maggiormente ad un piattino. Apri la bocca e dopo chiudila: tanto, ti mancava un cappellino!

Lascia un commento